L’attivazione di Kfor nelle regioni settentrionali del Kosovo, teatro del boicottaggio delle elezioni municipali da parte della popolazione serba e delle violenze contro l’insediamento dei sindaci di etnia albanese, segnala che le autorità locali prevedevano lo scenario di una minaccia il cui contenimento avrebbe richiesto requisiti superiori rispetto a quelli delle locali forze di polizia.

Nel paese sono presenti tre organizzazioni che si occupano di garantire la sicurezza, ognuna delle quali conta su effettivi e capacità diversi e può far fronte a livelli di violenza altrettanto differenti.

Il primo è la polizia kosovara, il secondo sono le unità di Eulex (missione dell’Ue), mentre il terzo è il contingente di Kfor (missione a guida Nato).  

I numeri di quest’ultima dimostrano l’impegno dell’Italia per la stabilità della regione che, nonostante l’alternanza al governo, è rimasto costante dal 1999. Il nostro contingente è il più numeroso insieme a quello americano e l’Italia è il contributore che più a lungo ha guidato – e guida tuttora – la missione.

Dati plasticamente illustrati, purtroppo, anche dal conteggio dei 41 feriti negli ultimi scontri: un terzo è italiano.

Quali sono le ragioni dell’interesse del nostro paese per il Kosovo e, più in generale, per i Balcani occidentali? Le violenze esplose a Zvecan, Zubin Potok e Leposavic sono lì a ricordarci – se ce ne fosse mai bisogno dopo il 24 febbraio 2022 – che la sicurezza non può essere data per scontata.

Presuppone un lavoro costante, talvolta snervante, da parte di chi desidera assicurarsela nonché la consapevolezza che – come dimostrato dalla Libia – di fronte alle minacce girarsi dall’altra parte non è la soluzione.

Il viaggio di novembre a Pristina e Belgrado dei ministri Antonio Tajani e Guido Crosetto va letto in questa prospettiva. Non ha costituito solo un indicatore della volontà italiana di rilancio nei Balcani occidentali, ma anche della consapevolezza – grazie ai warning della Farnesina e delle Forze armate – che dopo la “guerra delle targhe” la situazione sul campo era tornata su livelli di guardia.

La presenza nella regione di stati istituzionalmente o economicamente fragili costituisce l’ambiente ideale per la penetrazione da parte di potenze ostili al mondo occidentale, Russia e Cina in testa, o per le attività di organizzazioni criminali e terroristiche.

Il nostro rinnovato attivismo si fonda sulla convinzione che se l’accezione convenzionale di sicurezza come assenza di minacce militari rappresenta una condicio sine qua non per qualsiasi strategia sui Balcani, per il conseguimento di una stabilità duratura è imprescindibile un approccio corale che faccia ricorso a strumenti militari e civili.

Ragion per cui l’Italia non solo è figurata – e figura – tra i principali sostenitori dell’integrazione dei Balcani occidentali nella Nato e nell’Ue, ma ha lanciato una nuova serie di iniziative.

La Conferenza di Trieste (24 gennaio), il Business and Science Forum Italia-Serbia (21-22 marzo) e la ministeriale sui Balcani occidentali (3 aprile) sono stati pensati a sostegno della presenza delle aziende italiane nella regione e della cooperazione nella ricerca scientifica.

Roma ha così incassato il sostegno di Bruxelles. Nessuna delle due può permettersi di abbandonare al suo destino un’area che insiste direttamente sui loro confini. Ancor di più in una fase in cui Washington rivolge sempre più l’attenzione all’Indo-Pacifico e riflette sui costi del sostegno allo sforzo bellico di Kiev.

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