Dal 7 ottobre scorso a Gaza sono morti 36 giornalisti. Le stime sono della Commissione per la protezione dei giornalisti, un’organizzazione no profit internazionale che da tempo difende il diritto della categoria di esercitare la professione al sicuro in tutto il mondo.

Le loro vite non valgono più dei civili ma lì, a Gaza, i giornalisti palestinesi sono l’unica finestra dalla quale è possibile vedere cosa succede. In queste settimane i loro profili Instagram, TikTok e Facebook sono stati il canale in cui i video, le immagini e le notizie dal campo arrivavano nella loro totale crudezza al resto del mondo. Nello stesso modo il giornalista di Al Jazeera Wael al Dahdouh rendeva pubblica la morte di tutti i suoi familiari a seguito di un bombardamento israeliano.

Fino a quando questo collegamento digitale c’è stato, l’allarme e l’attenzione internazionale sul costo umano dei bombardamenti su Gaza era visibile. Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre scorso le celle telefoniche, i telefoni fissi e le connessioni internet hanno smesso di funzionare tutte insieme e tutte d’un tratto: i giornalisti sul campo sono spariti, Gaza è sparita dal mondo.

Tagliare le comunicazioni

Il taglio delle comunicazioni ha coinciso con un attacco via terra da parte dell’esercito israeliano, ovvero quella che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito la “seconda fase nella guerra”.

Alle 18.33 l’organizzazione di giornalismo investigativo in ambito tecnologico NetBlocks, che dal 2017 monitora internet nel mondo proprio per dare contezza di eventuali cadute del servizio, confermava ufficialmente sulla piattaforma X come «i dati di rete in tempo reale mostrano un collasso della connettività nella Striscia di Gaza con un forte impatto su Paltel», e, ancora, «la compagnia è l'ultimo grande operatore rimasto a fornire il servizio, poiché la connettività diminuisce a causa dei continui combattimenti con Israele». A seguire, ore di incertezza. I giornalisti e le ong a Gaza non aggiornavano i loro profili Instagram, le redazioni di Al Jazeera e Middle East Eye (tra le poche presenti) non riuscivano a contattare gli inviati.

I blocchi di internet, soprattutto durante guerre e conflitti armati, sono ormai un’arma ben rodata dai governi di molti paesi del mondo. Possono dipendere da attacchi a infrastrutture deputate alla fornitura di servizio internet o di telecomunicazioni che indirettamente ne limitano l’accesso, oppure da politiche volontarie dei governi che amministrano o hanno sotto controllo una determinata area.

Eventi di questo tipo sono stati registrati dopo il golpe in Myanmar (definita da osservatori internazionali una “dittatura digitale”), nella regione del Tigrè in Etiopia per due anni consecutivi, contribuendo a intensificare la crisi umanitaria in atto a seguito del conflitto scoppiato nel 2020 tra il Fronte popolare di liberazione del Tigrè e il governo federale etiope; e ancora nello Yemen a partire dal 2015 e in Ucraina dall’invasione russa del 2022.

Il primato dell’India

La correlazione tra blocchi internet e gravi violazioni di diritti umani come torture, omicidi, stupri, rapimenti e altri crimini di guerra – che in questo modo rimangono nascosti e non documentabili – è sottolineata anche dall’ong Access Now con la campagna Keep It On: secondo i dati raccolti da molte organizzazioni internazionali, solo nel 2022 i blocchi sono stati 33 e tutti in concomitanza di grandi proteste o guerre. Dall’inizio del 2023 ne sono stati contati già più di 80, con l’India di Modi leader incontrastata.

Nella mattinata di domenica 28 ottobre i video e le informazioni cominciano a circolare nuovamente a Gaza. “Siamo ancora tagliati fuori dal mondo. Niente elettricità, niente comunicazione, niente internet” riprende a scrivere il reporter Wael al Dahdouh; e a cascata arrivano le immagini del fotoreporter palestinese Motaz Azaiza, un video del fotografo Mohammed Zaanoun girato al valico di Rafah (al confine con l’Egitto) dopo aver camminato a lungo da Gaza proprio perché impossibilitato a connettersi, e altri contributi video anche della reporter Plestia Alaqad.

Gaza si è collegata al mondo di nuovo domenica mattina. Lo stesso giorno il Washington Post diffonde una notizia: gli Stati Uniti rivendicano il ruolo di pressione esercitato nei confronti del governo Netanyahu sull’accesso a internet. «Abbiamo chiarito che doveva essere riattivato», ha detto un ufficiale americano in anonimato al giornale. L’attacco da parte delle truppe israeliane continua, anche via terra, sotto gli occhi non solo degli Stati Uniti ma di tutte le potenze occidentali, ma il blocco di internet sembra essere stato troppo.

Dal 2G al 5G

I forti cali di connettività sono realtà dal giorno dell’attacco israeliano alla Striscia di Gaza lo scorso 8 ottobre. Nei giorni successivi è stato distrutto un edificio che ospitava Paltel e Jawwal, due dei principali fornitori di telecomunicazioni sul territorio. Anche le infrastrutture di altri fornitori internet come Fusion, Hadara e Jetnet hanno subìto ingenti danni causando interruzioni alla connessione internet e telefonica. Obiettivo degli attacchi aerei è stata anche la torre Al Watan, che ospita uffici di media ed è hub per fornitori di servizi internet.

Ciò è riscontrato anche dai reporter sul campo: l’ultimo blackout in ordine cronologico è stato denunciato dalla film-maker gazawa Wizard Bisan nella giornata del 5 novembre. Due giorni prima il post pubblicato tardivamente per mancanza di connessione internet dalla giornalista Plestia Alaqad ne denunciava un altro. Di questo ennesimo blackout è stata data notizia tra il 31 ottobre e il 1 novembre anche dall’operatore telefonico palestinese Paltel, e confermato poi da NetBlocks.

Rendere impossibile la finestra su Gaza in termini di ricostruzione della realtà non è l’unico risvolto pratico della mancanza di rete o di libertà di informazione. Senza telecomunicazioni e antenne i milioni di civili che vivono sotto costante bombardamento a Gaza non possono contattare ambulanze, persone care, ospedali, né trovare luoghi in cui rifugiarsi.

Anche laddove la connessione intermittente potrebbe essere ancora disponibile, c’è un problema: la Palestina non è coperta da tecnologia 4G. In un tweet di fine agosto Hussein Al Sheikh, a capo del ministero per gli Affari civili e membro del partito Fatah, aveva annunciato il passaggio di connettività a Gaza dal 2G al 4G. Lo scenario di guerra attuale non promette bene però, e tutto rischia di rimanere cristallizzato a un accesso a internet frammentario e deciso da una politica che non risponde ai bisogni dei palestinesi: in Cisgiordania il 3G è arrivato solo nel 2018, in Israele il 2022 è stato l’anno del 5G.
 

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