La Cina che dall’8 gennaio riaprirà – dopo quasi tre anni – le sue frontiere agli stranieri, sperava che il resto del mondo avrebbe accolto a braccia aperte i visitatori e i businessmen che scalpitano per intraprendere il percorso inverso, dalle metropoli della Repubblica popolare a quelle europee e statunitensi.

Martedì scorso le prenotazioni di voli internazionali dalla Cina verso l’estero sono aumentate del 254 per cento rispetto al giorno precedente.

La classe media (circa 350 milioni di persone), da anni abituata uscire dal paese per studiare o per turismo, e i manager ansiosi di riallacciare i rapporti con vecchi clienti hanno subìto pesantemente le chiusure della politica “zero Covid” voluta da Xi Jinping.

Per non parlare dell’aviazione civile, che è stata costretta a tenere parcheggiati un centinaio di aerei, un quinto della flotta a lunga percorrenza delle compagnie nazionali.

Così la scelta di Italia, Stati Uniti, Giappone, India e Taiwan (ai quali si stanno aggiungendo altri paesi, tra cui, ieri, Corea del sud e Malesia) di introdurre controlli e restrizioni all’accesso di passeggeri provenienti dalla Cina, dove dilaga la prima ondata di Sars-CoV-2 su scala nazionale, è stata stigmatizzata da molti come ingiustificata.

Sui social i nazionalisti hanno reagito con slogan come: «Doppia morale! Possiamo solo combattere contro gli Stati Uniti e i loro lacchè». Mentre il Global Times protestava contro «limitazioni discriminatorie» che «non aiutano a trarre beneficio dal turismo cinese».

Anche tra gli scienziati non mancano le voci critiche. Secondo il dottor Ali Mokdad dello Institute for Health Metrics and Evaluation della University of Washington, la decisione degli Stati Uniti di imporre un tampone entro 48 ore dall’imbarco ha un’efficacia «pari a zero».

Per l’ex epidemiologo del Centres for Disease Control and Prevention, «un viaggiatore potrebbe andare dalla Cina in un altro paese e poi venire negli Stati Uniti». Inoltre secondo Gisaid (un database in cui gli scienziati condividono le sequenze del coronavirus per monitorarne le mutazioni) l’epidemia in corso in Cina è causata da ceppi del virus che hanno già fatto il giro del mondo.

Superpotenza?

L’improvvisa riapertura ha messo in evidenza le stesse debolezze per far fronte alle quali era stata varata “contagi zero”, quelle di un paese rappresentato dai media come una superpotenza ma in realtà ancora condizionato da arretratezza, squilibri e inefficienze.

Nonostante la retorica della «vittoria nella guerra popolare contro il coronavirus» proclamata da Xi dopo la «battaglia di Wuhan», la successiva politica “contagi zero” ha rappresentato sostanzialmente una pezza messa su un sistema sanitario ancora sottosviluppato e su una ricerca farmaceutica che ha prodotto vaccini meno efficaci di quelli dei paesi avanzati.

I miliardi di tamponi somministrati, il tracciamento informatico, le chiusure “selettive” ma continue, si sono dimostrati alla fine inefficaci. Nelle settimane precedenti la “repentina” archiviazione di “contagi zero” i focolai si erano moltiplicati, ed è possibile che piuttosto che un’esplosione dei contagi in conseguenza della rimozione delle restrizioni sia avvenuto il contrario, che cioè il virus avesse già abbondantemente bucato un sistema tutt’altro che infallibile che, alla fine (complici il rallentamento economico e le proteste studentesche) è stato smantellato, perché in grado solo di rallentare, non di fermare il virus.

Mentre i social continuavano a rimandare immagini di obitori sovraffollati e code ai crematori in ogni parte del paese ieri Liang Wannian ha difeso il governo dall’accusa di nascondere il numero di morti, fermi ufficialmente a 5.247 dall’inizio della pandemia.

Il capo del comitato anti Covid del ministero della Salute ha sostenuto che «solo dopo l’ondata potremo calcolare il tasso di mortalità in modo più accurato».

In mancanza di dati aggiornati e trasparenti, a fare rumore sono quelli pubblicati all’estero. In base alle stime della compagnia britannica di analisi sanitarie predittive Airfinity, in Cina starebbero morendo a causa del Covid 9mila persone ogni giorno, oltre 100mila dall’inizio del mese, che potrebbero salire a 1,7 milioni entro aprile.

Mercato nero e solidarietà

Quello che è certo è che il virus corre velocissimo. Circa il 18 per cento dei cinesi (248 milioni di persone), avrebbe contratto il Covid nei primi 20 giorni di dicembre, secondo un verbale del ministero della sanità riportato da Bloomberg.

A Pechino si è già ammalato l’80 per cento dei 21 milioni di abitanti. Si prevede che questa prima ondata nazionale possa raggiungere il picco prima della fine di gennaio, permettendo al paese di rimettersi in moto a pieno regime entro il mese seguente.

La popolazione con sintomi lievi è invitata ad andare a lavorare, chi si ammala in maniera più seria prova a curarsi a casa, perché sa che gli ospedali sono sovraffollati e stanno fronteggiando l’emergenza con 12,8 posti di terapia intensiva ogni 100.000 abitanti (Gli Usa e la Germania ne hanno rispettivamente 34,7 e 29,2).

Su WeChat circolano i racconti di chi ha visto morire parenti in corsia, senza assistenza. Così la gente si rivolge a Taobao (l’Amazon locale) dove vanno a ruba non solo i saturimetri, ma anche i generatori di ossigeno e le confezioni di Paxlovid.

Il farmaco di Pfizer al mercato nero ha raggiunto i 50.000 yuan (6.740 euro), venti volte il prezzo di mercato. Così come è introvabile l’unico antivirale straniero approvato in Cina, sono schizzati alle stelle anche i prezzi dei generici Primovir, Paxista, Molnunat e Molnatris.

Nei negozi online sono esauriti i prodotti biomedicali dei marchi stranieri, dei quali i cinesi si fidano di più.

Ma non mancano le storie di solidarietà. Il performer Brother Nut ha avviato una raccolta fondi sul web per i poveri delle aree rurali, mentre il colosso di internet Tencent ha sviluppato un mini-programma per WeChat attraverso il quale chi abbia medicinali o apparecchiature sanitarie in eccesso può donarle a chi ne è sprovvisto.

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