Al Congresso americano il conflitto tra Israele e Hamas, l’organizzazione terroristica che controlla la Striscia di Gaza, ha portato una nuova divisione o, meglio, ha acuito quella che già esisteva.

Già l’invasione russa dell’Ucraina aveva spaccato il Partito repubblicano, diviso tra isolazionisti e tradizionalisti che credono in un forte ruolo dell’America a livello globale. Oggi invece sono i democratici a essersi spaccati su Israele.

È un’evoluzione lenta che ha portato a un cambio di atteggiamento non soltanto a Capitol Hill, ma anche nella base progressista. La Camera dei Rappresentanti, ancora senza uno speaker permanente, è attualmente paralizzata, perché come prima cosa andrebbe eletto il successore del repubblicano Kevin McCarthy, sfiduciato da una mozione votata da otto trumpiani e dall’intero gruppo dem.

Quindi non è possibile votare la mozione bipartisan di sostegno a Israele proposta dal presidente della commissione esteri Michael McCaul, repubblicano, e dal suo vice Greg Meeks, democratico.

Secondo il magazine online Axios, questa dovrebbe essere la prima mozione a essere discussa, appena il gruppo repubblicano eleggerà il nuovo presidente dell’assemblea.

Un’altra ipotesi, svelata dal quotidiano Politico, afferma che anche con uno speaker temporaneo è possibile comunque far approvare una mozione all’unanimità.

La frattura

Ed ecco il cuore del problema: questa unanimità non c’è. Le dichiarazioni delle due deputate della Squad, la corrente di estrema sinistra guidata da Alexandria Ocasio Cortez, mostrano in modo chiarissimo come anche questa scorciatoia non sia percorribile.

Cori Bush, eletta in Missouri, ha affermato che l’unica via per la pace in Terra Santa è “la fine del sostegno americano alle politiche israeliane di occupazione”, mentre la collega del Minnesota Rashida Tlaib, di origini palestinesi ha controbattuto che bisogna «riconoscere la violenta realtà del vivere sotto apartheid», in riferimento alla presenza di colonie ebraiche nei territori della Cisgiordania.

Questa divisione si è manifestata anche nei due maggiori stati governati dai democratici, New York e California. Domenica la sezione newyorchese dei Socialisti Democratici d’America (Dsa), un’associazione di radicali vicina alla sinistra dem, ha appoggiato una manifestazione a favore dei diritti della Palestina.

Gli slogan urlati da poco più di un migliaio di manifestanti, come ad esempio “la resistenza è giustificata quando la terra è occupata” hanno fatto salire un coro di proteste soprattutto dai dem mainstream, come la governatrice dello Stato Kathy Hochul, ha definito l’iniziativa «moralmente ripugnante», mentre il deputato Ritchie Torres ha definito «una macchia antisemita nell’anima di New York».

E i due aderenti newyorchesi ai Dsa, ovvero i deputati Alexandria Ocasio-Cortez e Jamaal Bowman, hanno preferito non esprimersi sui contenuti del corteo di domenica, pur condannando fermamente gli attacchi di Hamas.

Un serio problema in una città e in uno Stato dov’è una forte presenza di elettori di origine ebraica, la più grande al mondo fuori da Israele. E anche nel Golden State la questione israeliana divide i principali candidati alle primarie per succedere alla senatrice dem Dianne Feinstein, recentemente scomparsa all’età di 90 anni e nota per essere stata una forte sostenitrice dello Stato ebraico.

Soltanto uno di loro, il deputato Adam Schiff, ha espresso un sostegno «totale e inequivocabile» a Tel Aviv che ha subito «il suo 11 settembre» e ha rimarcato i «valori comuni» che uniscono gli Stati Uniti e Israele.

Mentre la sua avversaria e collega al Congresso Katie Porter ha espresso preoccupazione per la possibile “islamofobia” dei prossimi mesi, sull’esempio di quanto accaduto negli Stati Uniti dopo il 2001, ma aggiungendo che «bisogna prendere una forte posizione nei confronti di Teheran».

I sondaggi

Una condanna generica sui crimini commessi da entrambe le parti invece è arrivata dalla rappresentante afroamericana Barbara Lee, che comunque ha ribadito di sostenere Israele. Una questione scottante che però rispecchia un atteggiamento dell’elettorato progressista: lo scorso marzo un sondaggio svolto da Gallup registrava che tra i dem le simpatie andavano per il 49 per cento verso la causa palestinese mentre soltanto il 38 per cento confermava il proprio sostegno allo stato ebraico.

Mentre un’indagine svolta dall’Università del Maryland in collaborazione con Ipsos ad aprile registrava un cambio di percezione anche presso l’elettorato generale: solo un 9 per cento di rispondenti che definiva Israele una «democrazia vibrante» contro un 26 per cento che lo definiva una «democrazia limitata» o «un regime con una segregazione simile all’Apartheid sudafricana».

Certo deve fare riflettere che il 56 per cento del campione non avesse un’opinione. Come a dire che pur essendoci simpatie, all’epoca la questione arabo-israeliana non era certo in cima ai pensieri degli elettori. Anche se le cose potrebbero cambiare con il prolungarsi del conflitto.

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