La partecipazione straordinaria del presidente americano, Joe Biden, al consiglio dei capi di stato europei s’accorda con le circostanze straordinarie che il mondo sta attraversando, ma è più in generale un’occasione per ribadire il mantra “America is back” che Biden va ripetendo agli alleati europei dalla sua elezione, rovesciamento dell’”America First” usato da Donald Trump per ridisegnare un mondo a trazione nazionalista e incrinare così l’asse transatlantico con i disprezzati “free rider” europei. Fin qui tutto molto bello e multilaterale.

Ma l’intervento simbolico di Biden arriva in un momento in cui gli eventi sottolineano in modo piuttosto brutale un certo divario operativo, strategico e politico fra gli Stati Uniti e l’Unione europea. L’America sta vaccinando i suoi cittadini a velocità più che doppia rispetto alla media dei paesi europei – e la performance muscolare del Regno Unito fuoriuscito dal consesso europeo contribuisce a peggiorare la posizione del continente – e, come ha scritto Paul Kurgman, più ci si addentra nella malagestione pandemica europea più emerge chiaramente che non si tratta di «alcune cattive decisioni di alcuni leader cattivi», quanto di «difetti strutturali nelle istituzioni e negli atteggiamenti del continente, inclusa la stessa rigidità intellettuale e burocratica che dieci anni fa ha reso la crisi dell’euro molto peggiore di quanto avrebbe dovuto essere». A marcare le differenza c’è anche il pacchetto di stimoli proposti dalla Casa Bianca e approvati dal Congresso, che per estensione e ambizioni di riforma del sistema sociale fanno sembrare le manovre europee modeste immissioni di risorse in un sistema economico già di per sé meno dinamico.

Si ripropone, in un contesto diverso, il vecchio adagio di Bob Kagan, secondo cui gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere. Se si accetta di applicare la trita metafora bellica al virus, gli americani stanno dando battaglia con tutti i mezzi alla pandemia mentre gli europei litigano sulle fiale, fanno molti vertici e alla fine si fanno dettare le condizioni dalle case farmaceutiche. Non meno importanti sono gli scontri con Cina e Russia, con l’amministrazione Biden che preme per far saltare, in nome delle sanzioni, gli accordi commerciali che l’Europa aveva congegnato per contrastare la guerra commerciale trumpiana, e intanto va in collisione con la Germania sul progetto North Stream.

È su questo sfondo tumultuoso che Biden propone una specie di restaurazione dopo la “guerra” trumpiana, e ha buon gioco a dire, come ha fatto alla Conferenza di Monaco, che «gli ultimi quattro anni sono stati duri», annunciando quindi con una certa enfasi che l’ombrello americano è tornato, la superpotenza è di nuovo al fianco dell’Europa e la storia può tornare a finire, dopo essere inopinatamente ricominciata.

L’eredità di Obama

Ma il processo di ridefinizione dei rapporti è iniziato molto prima di Trump, e Barack Obama non è stato il presidente del consolidamento transatlantico ma del “pivot to Asia”, il cambio di sguardo strategico verso il quadrante decisivo per gli obiettivi americani, che per la prima volta dalla sua fondazione non era quello europeo. Obama è stato in un certo senso il primo presidente post-novecentesco nella gestione delle relazioni con l’Unione europea e con la Nato: ha promosso il consolidamento dell’Europa come soggetto politico maturo e autonomo, ha rinsaldato l’alleanza sulla base di valori e traiettorie strategiche comuni, ha incoraggiato l’Unione a camminare sulle sue gambe e nel frattempo ha richiamato i suoi leader a contribuire in modo più sostanziale all’alleanza transatlantica.

Lo ha fatto anche molto duramente. Lo ricordiamo tutti l’ultimo discorso del segretario della Difesa, Bob Gates, a Bruxelles nel 2011. No? Ecco, appunto. Nella memoria collettiva le immagini dell’euroinnamoramento per Obama sullo sfondo della porta di Brandeburgo hanno prevalso su quelle del capo del Pentagono che dice che l’America è stanca di spendere risorse per stati che «non vogliono condividere rischi e costi». Per ovvio contrasto con Trump, il presidente americano è dunque l’eroico ricucitore dell’alleanza vitale che il populista con il ciuffo aveva scelleratamente messo in discussione, ma nello sviluppo delle relazioni internazionali è il diretto discendente di un’amministrazione che guardava soprattutto altrove. Biden ha rimesso in cantina il busto di Churchill, non ha portato nello Studio Ovale quello di Jean Monnet.

 

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