I gazawi che odiano Hamas: «Spietati e senza strategia»

Nonostante gli ultimi intensi bombardamenti, il flusso di gente che si sta ancora spostando verso il centro e il sud della Striscia non si ferma. Anche molti dei cittadini di Gaza City che avevano deciso di rimanere ora stanno scappando, perché quelle poche case rimaste in piedi sono state rase al suolo e i cingoli dei carrarmati hanno schiacciato anche le vittime sepolte sotto. Se di te non resta più nemmeno un corpo da recuperare, magari in seguito; se vieni polverizzato, è come se non fossi mai esistito, e allora meglio provar ad andar via. «I nostri amici ci hanno supplicato di raggiungerli», racconta Jamila Abou Ali, 50 anni, «perciò siamo partiti e ci siamo portati via una pietra della nostra casa, per ricordo. Ma siamo talmente arrabbiati che, se intravedessimo un miliziano di Hamas gli andremmo a spaccare la testa con le macerie della nostra casa». I miliziani Da Gaza City in giù, in giro non si vede più neanche l’ombra dei jihadisti, un po’ perché impegnati nei combattimenti contro l’Idf, un po’ perché sanno benissimo di essere un nemico per tutta la popolazione di Gaza. Se fino a sei mesi fa ancora c’era qualcuno che, in cambio di soldi o di un’illusoria via di fuga dalla Striscia, accettava di affiliarsi e di combattere, ora le cose sono cambiate. «Non sappiamo con certezza quanti soldati di Hamas siano davvero rimasti», spiega il giornalista Hassan Isdodi, «ma non sono tanti e si nascondono tutti nei tunnel. Sicuramente sono in una situazione di difficoltà, ma, purtroppo per noi, hanno ancora un certo numero di ostaggi vivi che possono usare come arma». Nelle ultime ore, infatti, la falange di Hamas che ancora controlla le operazioni militari ha detto al governo di Israele che non recupererà nemmeno un prigioniero ancora in vita. Secondo il portavoce dei miliziani, gli ostaggi sono nei quartieri di Gaza City in cui stanno avvenendo i raid più pesanti e potrebbero, quindi, morire. «Hamas è spietato, lo è sempre stato», spiega ancora il cronista Isdodi, «e non sembra avere una strategia. Ogni giorno ci sono degli scontri con l’Idf. I combattenti fanno delle imboscate, usano ordigni esplosivi, e poi si ritirano tornando nei tunnel, lasciando noi cittadini alla mercé della brutalità di Benjamin Netanyahu». Secondo le fonti, nemmeno i servizi segreti israeliani sanno con certezza quanti miliziani di Hamas siano ancora attivi, ma a Gaza inizia a girare la voce che anche tra quelli rimasti, tanti o pochi che siano, c’è voglia di lasciare il territorio. «Si dice che alcuni membri di Hamas stiano chiedendo di andare in Tunisia». A dirlo è Muhammad Ismail Huwaihi, 75 anni, nato nel 1952 a Beit Hanoun. Dopo aver vissuto la Nakba si è occupato di politica osteggiando da sempre Hamas e i suoi gruppetti satellite. Sua moglie e sua figlia sono state uccise da una bomba un anno fa e da allora ha iniziato a studiare le strategie dei combattenti. «Sembra che la Tunisia sia diventata una meta molto richiesta dai miliziani», spiega Muhammad, «e pare che stiano cercando di “infilarla” in qualche modo negli accordi ai tavoli di trattativa. Se se ne andassero, sarebbe un giorno di festa per Gaza, anche se non so esattamente che cosa ci sarà un dopo». Secondo Muhammad, in questo momento, per fermare il genocidio a Gaza Hamas dovrebbe arrendersi e restituire gli ostaggi. «La situazione ci impone di sospendere il conflitto in corso», dice ancora il settantacinquenne. «Dobbiamo dare priorità alle trattative piuttosto che ricorrere ad armi e violenza. È il momento di impegnarsi in un dialogo. Siamo arrivati a un punto in cui non possiamo rischiare ulteriori perdite; il nostro popolo sta già soffrendo abbastanza e non c’è più nulla su cui scommettere». La popolazione di Gaza è davvero allo stremo e infatti, c’è una idea di cui qualcuno inizia a parlare per davvero. «Da qualche settimana», spiega il giornalista Isdodi, «si discute della possibilità, per ora remota, di organizzare una marcia di tutta la popolazione di Gaza che avanza verso i confini con Israele con le mani alzate, in segno di resa. Per dimostrare al mondo che non siamo complici di Hamas». Letestimonianzedeigazawi:«Ilcieloèdiventatodifuoco.Imieiamicisonostatiinceneriti» La vita di chi resta La disperazione, la rabbia, il dolore, la frustrazione. E poi ancora la fame, la sete, il caldo. Sono sensazioni che i gazawi conoscono troppo bene, perché la vita è ogni giorno più dura. «La mia giornata inizia correndo a riempire due taniche con l’acqua salata, per lavarci e pulire gli spazi, e poi almeno una pentola d’acqua potabile». Ce lo racconta Wael Al-Qarnawi, 45 anni che, con un figlio e due bimbe, è scappato da Gaza City qualche giorno fa. In mancanza di uno spazio vitale nel campo di Deir al Balah, Wael, che aveva ancora un piccolo gruzzoletto in banca, non ha potuto far altro che affittare un angolo del rudere della scuola Rafidah, a ovest della città. Ma il prezzo è molto alto e Wael ha dovuto subito trovare un posto dove prelevare il denaro. Chiuse le banche, infatti, a Gaza l’unico modo per ritirare dei soldi è rivolgersi ai “commercianti di liquidità”. «Il ras voleva essere pagato subito e ho dovuto prendere mille shekel», racconta Wael. «Tuttavia, l’importo che effettivamente ho portato a casa è stato molto inferiore, poiché da quella cifra mi hanno detratto una commissione parecchio alta che me ne ha lasciati in tasca circa cinquecento, giusto solo per l’affitto e niente altro. Inoltre», spiega ancora Wael, «i contanti che mi hanno dato erano logori e quando le banconote sono così rovinate spesso vengono scambiate a meno del loro valore». E se le poche banconote che ancora circolano a Gaza sono malconce, come si fa? AGazaigiornalistifannotestamento:laricercadelfuturotrasfollamentiebombe Le soluzioni Nell’economia dell’assedio, ogni cosa, nel bene e nel male, giusto o sbagliato che sia, trova una soluzione. O un risolutore, come Ahmed Abu Al-Joud, 30 anni, sposato con tre figli. Prima della guerra era un quality manager in un’azienda di formaggi e latticini, oggi, invece, fa il riparatore di danaro. «Ho avviato la mia attività nel novembre 2024 sperando di guadagnarmi da vivere», ci spiega l’uomo. «Il mio obiettivo è sistemare quei contanti che vengono rifiutati nelle transazioni. Se qualcuno mi porta banconote che mostrano un potenziale di riparazione, sono felice di aggiustarle e in cambio chiedo tra i due e i tre shekel. Il lavoro richiede impegno e concentrazione, perciò, credo che il mio guadagno sia giusto». Quelli accusati di non essere onesti sono proprio i commercianti di valuta, che stanno chiedendo commissioni sempre più alte. «Io faccio il mediatore, rivendo solo i soldi dei grandi commercianti di denaro», spiega Yousef Anwar, 33 anni. «Se prendo soldi con una commissione del 30 per cento, di solito io la aumento del 3, portandola al 33 per cento. Altri aggiungono persino un 5 o 7 per cento in più alle loro commissioni per aumentare i guadagni, io no». Yousef incontra i clienti in luoghi pubblici per non rischiare di essere derubato, ma in questi ultimi giorni gli affari sono quasi zero. Con l’avanza dell’Idf nella Striscia e i bombardamenti sempre più frequenti, anche quel po’ di vitalità che ha resistito finora sta svanendo. Non si compra, non si vende, non si baratta. Si soffre e si aspetta, provando ancora un po’ ad alimentare la speranza. Cercando ancora un po’ di resistere. «Aspettiamosolodimorire»