I cieli di Tripoli sono affollati. In pochi giorni il governo libico di unità nazionale ha incontrato sia il generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano di transizione del Sudan e unico governo riconosciuto a livello internazionale, sia il capo dei ribelli delle Rapid Support Forces, il generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemetti. I contatti personali sono stati però diversi: al-Burhan è stato accolto dal presidente Mohamed Younis Ahmed al-Menfi, mentre è stato il primo ministro Abdul Hamid Mohammed al-Dbeibeh a ricevere Hemetti. Un caso di diplomazia a chiasmo nato su iniziativa dello stesso al-Dbeibeh, che con una chiamata ha invitato il capofamiglia dei Dagalo nel Paese. Una prospettiva che ha visto al-Burhan muoversi in contropiede, organizzando una visita lampo nella capitale della Libia occidentale prima del suo rivale.
Non è la prima volta che uno Stato africano riceve entrambi i contendenti della guerra civile sudanese ed è probabile che non sarà neanche l’ultima: otto milioni di profughi dopo, il conflitto stenta infatti a trovare un vincitore. È vero che quando il 15 aprile dell’anno passato i paramilitari dei Dagalo si sono scagliati contro le Forze Armate Sudanesi fedeli ad al-Burhan, i pronostici favorivano le truppe regolari.

Questa ricchissima famiglia di mercanti d’oro darfuriani era mossa dal mero desiderio di conservare il dominio sulle miniere, opponendosi all’integrazione delle sue milizie nell’esercito come richiesto dal governo. Dotati soltanto di truppe di terra e nessun mezzo pesante, i Dagalo sembravano destinati alla sconfitta. Un’impressione presto modificata dalle realtà sul campo.

Le forze in campo

Il vantaggio governativo nei cieli si è dimostrato d’impatto assai limitato di fronte all’esperienza di guerra maturata dalle Rapid Support Forces, formate da esperti sterminatori di etnie rivali – non per nulla sono conosciuti anche col nome di janjawid, “demoni a cavallo” – che hanno combattuto persino come mercenari in Yemen al soldo degli Emirati Arabi Uniti. Così gli scontri si sono trasformati presto in una serie di assedi che hanno isolato le basi dell’esercito regolare, mentre la capitale Khartum è stata frammentata in aree di influenza. Sebbene la recente vittoria dei soldati di al-Burhan nella zona occidentale della Capitale abbia portato qualche ottimismo nelle file dei lealisti, la totalità del Darfur e buona parte del Kordofan – così come l’importante regione agricola di Gezira – sono ormai in mano a Hemetti. Quasi la metà di questo enorme paese, insomma.

Il governo legittimo si è dovuto trasferire a Port Sudan sul Mar Rosso e la vasta zona desertica che caratterizza il Sudan orientale sembra essere l’unico argine all'avanzata dei ribelli, le cui colonne di furgoni pickup armati di mitragliatrici sarebbero presi facilmente di mira dall’aeronautica sudanese in ambienti senza ripari.

Tuttavia nessun successo è magico e le guerre costano. Se l’oro dei Dagalo assicura una costanza alle paghe e al rancio dei miliziani che spesso è assente dal lato delle truppe governative, un aiuto non indifferente arriva dagli specialisti in guerre africane del Gruppo Wagner. Il motivo principale della visita di al-Burhan a Tripoli è infatti legato anche ai 382 chilometri di confine di sabbia condivisi tra i due Paesi, che rappresentano una via ideale per il contrabbando. Il Sudan confina con la regione libica della Cirenaica, da tempo sotto il controllo del generale Khalifa Belqasim Haftar al-Ferjani e dei mercenari russi che lo sostengono. Altri soldati prezzolati del Wagner sono invece impegnati da tempo nella protezione e la gestione delle miniere d’oro dei Dagalo. Questi due gruppi di “assistenti” godono quindi di una continuità territoriale che permette loro di far girare equipaggiamenti vitali tra le regioni controllate dai loro “assistiti”.

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Spazi e costi

Al-Burhan sa bene che senza questo supporto sarebbe molto più difficile per la famiglia Dagalo condurre una guerra che coinvolge cinquanta milioni di abitanti distribuiti in un’area grande quanto l’Europa occidentale e vorrebbe ridurlo, se non eliminarlo del tutto. L’afflusso di armi dalla Libia ripropone poi la dinamica che creò in primo luogo il problema di questi ribelli: fu infatti Muʿammar Gheddafi a decidere di armare le tribù di mandriani a cavallo arabo-sudanesi baggara quando mosse una guerra perdente contro il vicino Ciad, trasformandoli nelle milizie janjawid evolutesi a loro volta nelle attuali Rapid Support Forces. Una scalata sociale che ora permette loro di aspirare al governo stesso del Sudan.

In teoria il governo di Tripoli dovrebbe schierarsi naturalmente contro un generale golpista finanziato dall’estrazione di materie prime, rivedendo le dinamiche di Haftar nell’operato di Hemetti, ma anni di guerra civile hanno insegnato molta cautela ai governanti libici. Se in Libia non vi è una volontà di agire direttamente contro il contrabbando, le richieste di al-Burhan potrebbero essere comunque ascoltate dal “piano superiore”.

Tripoli riuscì infatti a contenere l’avanzata di Haftar solamente grazie alle armi di Ankara, che diede prova dell’efficacia degli stormi di droni Baykar Bayraktar TB2. Se Recep Tayyip Erdogan dovesse decidere di investire anche sulla sopravvivenza di al-Burhan, le Forze Armate Sudanesi potrebbero quindi ricevere un miglioramento considerevole dei loro arsenali. Ciò aggiungerebbe la Turchia alla schiera dei sostenitori di Khartum, che già annovera l’insolita accoppiata di reparti speciali ucraini (inviati dal Gur col compito specifico di eliminare i wagneriti russi) e droni iraniani donati di recente dagli ayatollah per allontanare il Sudan dall’orbita degli emirati della penisola araba.

Uno scenario ancora tutto da realizzarsi riguardo la posizione turca. È ancora presto per stabilire se davvero Erdogan sceglierà di parteggiare per una delle due parti ed è bene tenere presente che è stato Hemetti il primo a essere invitato in Libia, nel caso venga presa una decisione a riguardo.

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