Il summit per la democrazia organizzato dall’amministrazione di Joe Biden ha attirato l’attenzione mediatica soprattutto per la lista degli invitati: fuori l’Ungheria di Viktor Orbán ma dentro il Brasile di Jair Bolsonaro; non invitata la Turchia del Sultano Recep Tayyip Erdogan, al contrario delle Filippine di Rodrigo Duterte.

Meno attenzione è stata data a chi nell’amministrazione ha concepito e strutturato l’evento, Shanti Kalathil, coordinatrice del settore democrazia e diritti umani della Casa Bianca. La sua nomina, lo scorso gennaio, è passata relativamente sotto silenzio.

Kalathil faceva parte del National Endowment for Democracy, un’organizzazione non governativa finanziata dal dipartimento di Stato per la promozione dei diritti umani del mondo fondata su impulso di Ronald Reagan, che ne preannunciò la creazione durante un discorso nel 1982, di fronte al parlamento britannico, per promuovere «un’infrastruttura di democrazia a sostegno di un sistema di stampa libera, sindacati, partiti politici e università».

Prima ancora, era una giornalista del Wall Street Journal inviata ad Hong Kong nei giorni del 1997 che videro il passaggio di sovranità alla Cina comunista: per lei, come ha dichiarato a Politico il suo collega Jon Hilsenrath, fu un momento cruciale, il segno che doveva dedicarsi allo studio dei sistemi politici comparati, dopo essersi laureata in giornalismo alla London School of Economics.

Comincia una lunga carriera nei centri di ricerca nelle istituzioni che si occupano di promozione dei diritti umani nel mondo: ricercatrice alla Georgetown University, consulente alla World Bank e del Carnegie Institute in Europa. Fino alla nomina del gennaio scorso e all’organizzazione del summit.

Quale sia la sua funzione nell’attuale amministrazione quindi è molto chiaro, «incorporare la promozione dei diritti umani come un elemento centrale della politica estera».  Per questo è stata scelta per organizzare il summit: una persona con radici familiari in quella Taiwan che è stata invitata e che ha visto di persona l’espansionismo cinese in azione.

Il messaggio che al mondo dà l’autrice del libro del 2003 Open networks, closed regimes è quindi che la Cina di Xi Jinping è l’avversario principale dell’America. Non solo: l’assunto del suo volume è che i regimi possono facilmente controllare Internet e usarlo come strumento di controllo. Un modo più soft di esprimere ostilità a Pechino rispetto al principale advisor sul commercio estero di Donald Trump, Peter Navarro, il quale parlava di «Morte dalla Cina», ma non dissimile.

Giornalisti engagé

C’è un altro tema che emerge dall’incarico di Kalathil, quello dei giornalisti diventati comunicatori del governo: bisogna andare molto indietro per trovare il primo di questi, John James Beckley, sostenitore di Thomas Jefferson, commentatore salace di due periodici radicali, la National Gazette e il General Advertiser, primo bibliotecario del Congresso e spietato critico dei federalisti di Hamilton, descritti come segreti filobritannici pronti a restaurare la monarchia.

Un autore di colpi bassi per conto di un terzo, il presidente Jefferson, che all’epoca non si poteva esprimere apertamente per questioni di “decoro della carica”. Altri tempi, decisamente.

Per trovare un moderno professionista dei media che costruisce una macchina propagandistica del governo però, bisogna arrivare al 1917, quando Woodrow Wilson decide di far intervenire l’America nel primo conflitto mondiale contro la Germania imperiale che rischia di sconfiggere la Francia e la Gran Bretagna.

Wilson non può costituire, come in Italia, un’organizzazione esplicitamente propagandistica, così costituisce un’agenzia di informazione, il Comitato per l’informazione pubblica, diretto dal giornalista George Creel: in un suo libro di memorie del 1947, Rebel at Large, parla di un agenzia di «propaganda in senso pieno, ovvero di diffusione della Fede nello sforzo bellico».

Per quanto l’intenzione fosse di «indirizzare, ma non sopprimere», il Comitato in realtà svolse anche una funzione censoria in cooperazione con il direttore generale delle poste Albert Burleson: semplicemente, i periodici ostili all’intervento non sarebbero stati più spediti.

Più recentemente, due presidenti così diversi nella prassi ma uniti nell’espansione mediatica della figura presidenziale come Barack Obama e Donald Trump, hanno pescato ripetutamente dai media amici: rispettivamente la Cnn e la Fox News.

Obama, in particolare, ha nominato l’ex corrispondente di guerra per l’Economist e New Republic Samantha Power ambasciatrice all’Onu, mentre Trump ha usato i volti di Fox News Heather Nauert e Hope Hicks come comunicatrici nelle varie branche del governo.

In totale, 21 giornalisti della Fox sono andati a fornire i loro servigi a Trump. Ma anche Obama ha avuto un numero notevole di giornalisti, almeno 24, provenienti non solo dalla Cnn, ma anche da magazine liberal. Il primo portavoce di Obama, Jay Carney, aveva lavorato per vent’anni al Time, e dopo la Casa Bianca è passato alla comunicazione di Amazon. 

Questa commistione, che funziona anche nell’altro senso, ovvero con ex funzionari delle due amministrazioni che vanno a occupare posti di commento nei due network più seguiti da liberal e conservatori, la dice lunga sulla polarizzazione dei media americani. Quale indipendenza possono avere dei giornalisti divenuti funzionari e viceversa?

Anche in questo caso, non è una novità: un vecchio volume del 1984 di Michael McGerr, The Decline of Popular Politics, spiega che fino agli anni Ottanta dell’Ottocento a prevalere era la stampa militante, apertamente faziosa, senza pretese di terzietà.

Quello che era diverso rispetto ad oggi è che fuori dalla campagna elettorale c’era collaborazione nel processo legislativo. Quello che oggi manca, non essendoci una fine vera e propria del periodo elettorale.

Per quanto Shanthi Kalathil abbia un profilo ben definito e tutto sommato non troppo politicizzato, è difficile non vedere un problema in questo uso promiscuo dei giornalisti-comunicatori. Una questione che ricorda molto da vicino le “porte girevoli” tra politica e lobbismo, e per certi versi ne è un corollario.

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