All’indomani della seconda tappa, quella moscovita, della missione di pace dell’inviato del papa, il cardinale Matteo Zuppi, il bilancio dell’iniziativa resta altamente incerto; un groviglio di luci, non molte per la verità ma era comunque un’impresa difficile, e varie ombre la cui entità si comprenderà meglio col passare dei giorni.

Di certo il cardinale si è speso fino all’ultimo per portare a casa qualche risultato concreto, ne è riprova il fatto che ancora nella mattinata del 30 giugno il presidente dei vescovi italiani abbia incontrato per la seconda volta il consigliere di Vladimir Putin, Yuri Ushakov, il quale ha però voluto lui stesso circoscrivere il campo d’azione del Vaticano in Ucraina, affermando che «come è abbastanza logico» si tratta «delle questioni umanitarie, dello scambio dei civili detenuti, delle questioni relative allo sfollamento dei bambini e di altre storie di questo genere».

Quindi Ushakov ha spiegato come nei colloqui via sia stato uno «scambio di vedute utile per entrambe le parti», ma «non è stata avanzata alcuna idea specifica». Tuttavia il consigliere di Putin, ha espresso un «alto apprezzamento» per la posizione «equilibrata e imparziale» del Vaticano illustrata da Zuppi sulla situazione in Ucraina, la Russi, ha detto, è pronta a discutere ulteriori proposte se emergeranno. Il Vaticano, ha aggiunto Ushakov, ha mostrato la volontà di depoliticizzare la soluzione dei problemi umanitari legati al conflitto in Ucraina.

«Sosteniamo questa intenzione del Papa», ha concluso il consigliere. Dichiarazioni che non possono certo entusiasmare, d’altra parte è lecito chiedersi se fosse possibile ottenere di più. Il Vaticano, da parte sua, faceva sapere che «I risultati della visita saranno portati alla conoscenza del Santo Padre, in vista di ulteriori passi da compiere, sia a livello umanitario che nella ricerca di percorsi per la pace».

Le mediazioni impossibili

L’arcivescovo di Mosca, Paolo Pezzi, evidentemente ben consapevole della situazione politica del paese, ha valutato positivamente la tre giorni del cardinale italiano nella capitale russa, spiegando che «Zuppi porterà a casa di concreto innanzitutto un’ottima accoglienza, in secondo luogo una disponibilità a continuare, e questo non era scontato».

Anche Pezzi ha sottolineato come le questioni umanitarie «soprattutto l'emergenza costituita dai profughi, dai rifugiati e dai prigionieri», siano state al centro della visita. E qui, in fondo, sta il primo vero limite della missione della Santa Sede.

Partita come iniziativa per aprire spiragli di pace e quindi di possibili benché futuri negoziati, la missione – considerate le due tappe, quella di Kiev e quella di Mosca – si è trasformata in un tentativo di mediazione per effettuare scambi di prigionieri o per far tornare a casa bambini deportati dalle forze armate russe nei territori occupati durante il conflitto.

Si tratta certamente di obiettivi importanti e condivisibili, ma assai poco diplomatici in senso stretto. In questo senso vanno letti i mancati incontri fra il card. Zuppi e il presidente Putin o il ministro degli Esteri Sergey Lavrov: un incontro a questo livello significava, da parte russa, riconoscere la Santa Sede come interlocutore nella crisi intesa nel suo insieme, e questo non è avvenuto.

Neanche la parte ucraina, che è stata certamente più accogliente sotto il profilo istituzionale verso l’inviato di Francesco, d’altro canto, ha avuto un atteggiamento diverso: in più occasioni il presidente Volodymir Zelensky, prima nella sua visita in Vaticano dal papa alla metà di maggio, poi ricevendo il cardinal Zuppi a Kiev, all’inizio di giugno, ha ripetuto a chiare lettere che le condizioni per un negoziato le decide l’Ucraina, senza interventi esterni.

Le prime aperture

Restano sul tappeto, in ogni caso, le dichiarazioni de ministro Lavrov del 30 giugno, il quale ha affermato che c’è la disponibilità dei russi a restituire i bambini ucraini portati via durante l’occupazione (messi in salvo dal conflitto secondo il diplomatico russo) qualora vi siano genitori o parenti diretti che ne facciano richiesta.

Un’affermazione che è sembrata legata ai colloqui avuti da Zuppi a Mosca e con la quale Lavrov, implicitamente, finisce col riconoscere quei crimini di guerra per i quali nel corso dello stesso briefing aveva detto non vi fossero prove da parte occidentale. Se a questo annuncio seguiranno i fatti, la missione vaticana avrà comunque aperto un piccolo varco nella tenebra della guerra.

C’è infine il capitolo Patriarcato di Mosca. Qui, per la prima volta dall’inizio dell’invasione, Kirill ha detto che le chiese devono lavorare insieme per raggiungere la pace, «È importante che tutte le forze del mondo si uniscano per prevenire un grande conflitto armato» ha aggiunto.

Parole diffuse dai canali ufficiali di Mosca e che segnano un piccolo ma significativo cambiamento di tono nell’approccio della Chiesa ortodossa al conflitto, forse un primo passo in una strategia concordata col Cremlino per differenziarsi dalla retorica bellicista. C’è poi un altro aspetto cui è necessario prestare attenzione: ovvero il fatto religioso.

Russia e Ucraina sono entrambi paesi di tradizione ortodossa, in cui anzi la spaccatura fra le varie chiese cristiane ha contribuito ad infiammare il conflitto. L’unica realtà cattolica di qualche peso, si trova in Ucraina dove esiste una Chiesa greco-cattolica; quest’ultima, tuttavia, ha guardato con crescente diffidenza al tentativo della Santa Sede di restare, per quanto possibile, neutrale per provare a giocare un ruolo in un eventuale negoziato.

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