I partiti non contano niente. O quasi niente. Per molto tempo la ricerca ha ignorato il ruolo dei partiti politici in politica estera, considerandoli per lo più irrilevanti. Da alcuni anni, però, questa visione superficiale ha lasciato il posto a una serie di studi che hanno dimostrato l’importanza di indagare il rapporto partiti e politica internazionale.

Che ruolo giocano allora i partiti italiani in politica estera? La recente ricerca su partiti e politica estera – nel contesto post Guerra Fredda – illustra un quadro sorprendente. In particolare per quanto riguarda la politica di difesa italiana, due aspetti meritano una particolare attenzione. In primo luogo, se la politica italiana appare spesso come un’arena conflittuale e litigiosa nella quale i partiti sono in perenne contrasto tra loro, nell’ambito della politica di difesa le cose vanno in modo molto diverso. Infatti, le decisioni – dal voto sulle missioni militari alle acquisizioni di programmi di armamento – sono state quasi sempre adottate in modo bipartisan e sono avvenute in un clima di generale disinteresse. Una scarsa attenzione condivisa da media, accademia e soprattutto dal parlamento, che ha varato una legge-quadro sulle missioni solo alla fine del 2016, dopo quasi trent’anni di operazioni militari, segnate da un controllo legislativo limitato o addirittura assente.

Sostegno bipartisan

In questo contesto, dall’inizio degli anni Novanta, la grande maggioranza degli interventi militari ha ricevuto un sostegno parlamentare bipartisan (con un livello di consenso in termini di voti attorno all’80 per cento), dai Balcani all’Afghanistan, dal Libano al Sahel. In altre parole, centrodestra e centrosinistra hanno sostanzialmente condiviso le principali scelte in ambito di difesa. Per esempio, la sanguinosa e più costosa missione militare in Afghanistan ha ricevuto un supporto costante dai principali partiti italiani negli ultimi quattro lustri.

Inoltre, anche nei momenti più controversi e “divisivi”, i maggiori partiti non hanno quasi mai fatto mancare il proprio sostegno alle forze armate all’estero: si pensi a Forza Italia che appoggia l’operazione Alba nel 1997 in Albania, aiutando il governo Prodi privo del supporto di Rifondazione, o addirittura all’astensione di parte del centrosinistra sulla missione in Iraq (2003-2006). La superficiale narrazione delle “missioni di pace” ha poi accompagnato questo sforzo bipartisan, segnato dall’opposizione della maggioranza dell’opinione pubblica verso interventi militari in scenari di conflitti (come la Libia, l’Iraq o – tranne i primi anni – l’Afghanistan).

Sostegno al centro

Il secondo aspetto che emerge dalla ricerca politologica attiene alla motivazione ideologica che porta i partiti a sostenere o meno un dato intervento. Recenti studi empirici evidenziano l’esistenza di un “modello curvilineo” che spiega il supporto dei partiti alle missioni militari: i centristi, i “moderati”, sono i massimi sostenitori delle operazioni militari mentre ai lati (più all’estrema sinistra che a destra) troviamo una maggiore opposizione. Questo modello è pienamente confermato nel caso italiano: Rifondazione comunista ha sovente avversato le operazioni all’estero, i maggiori partiti di centrodestra e centrosinistra sono stati invece quasi sempre a favore, mentre la Lega (pur con una frequenza minore dell’estrema sinistra) è stata spesso contraria (Balcani, Libano, ecc.).

La ricerca ci dice inoltre che il tipo di operazione è cruciale per capire come mai alcuni partiti votino a favore e altri contro. Per esempio, i partiti di sinistra tendenzialmente preferiscono operazioni umanitarie o di peacekeeping, in un framework multilaterale. Proprio a causa della frequenza di questo tipo di missioni negli ultimi decenni, non è corretto affermare che i partiti di sinistra (in Italia e in Europea) siano in generale più restii a usare la forza di quelli di destra.

Una questione di maggioranza

La variabile che più di ogni altra spiega la decisione dei partiti di votare a favore di un intervento militare è l’appartenenza al governo. Più che l’ideologia, infatti, a determinare il voto dei partiti italiani è il far parte – o meno – della maggioranza. Per esempio, una volta al governo, i Verdi e i Comunisti italiani (i cui esponenti di punta di allora sbraitano ancora oggi tra i “rossobruni” nostrani contro Nato e Unione europea) sostennero i bombardamenti in Kosovo nel 1999. Il Movimento 5 stelle, dopo essersi vigorosamente opposto a numerose operazioni militari dal 2013 al 2018, negli ultimi due anni ha invece sostenuto tutte le missioni esistenti, dall’Afghanistan al Niger. La Lega, infine, ha cambiato quasi completamente atteggiamento su ogni operazione a seconda della sua collocazione al governo o all’opposizione.

Alla luce di questo generale consenso bipartisan sulla difesa è importante infine chiedersi se anche la politica estera italiana nel suo complesso sia segnata da una sostanziale continuità. Il breve “esperimento” del governo giallo-verde, rappresenta un test utile per capire che impatto hanno avuto i “partiti populisti e sovranisti” sulla politica estera, data la diffusa (ed efficace, a livello elettorale) retorica del cambiamento.

Se gli studi sulla politica estera italiana hanno evidenziano negli anni passati una generale condivisione degli obiettivi internazionali, pur nella diversa rilevanza attribuita ad atlantismo ed europeismo rispettivamente da centrodestra e centrosinistra, i presupposti per una netta virata di rotta non mancavano, date le promesse elettorali di Lega e Cinque stelle. Il governo giallo-verde ha rappresentato una innovazione rilevante a livello europeo: un all populist executive privo di forze politiche mainstream.

La ricerca ha solo di recente affrontato il tema delle conseguenze in politica estera di governi sostenuti da partiti sovranisti e populisti, guidati da un’esile ideologia che concepisce la società come divisa tra due blocchi omogenei e antagonisti, il popolo puro e l’élite corrotta. Certamente, secondo questi studi, l’ideologia principale (di destra o di sinistra) alla quale il populismo “si attacca” aiuta a spiegare le scelte adottate. Ma il possibile impatto di esecutivi populisti nello scenario internazionale può ragionevolmente riguardare anche aspetti quali: minori concessioni all’interno di istituzionali globali, una strenua difesa di interesse e sovranità nazionale contro le “élite internazionali”, una diversificazione delle alleanze, preferendo rapporti bilaterali a quelli multilaterali, e una crescente personalizzazione e centralizzazione della politica estera.

Il caso del governo giallo-verde conferma queste aspettative della ricerca, soprattutto in relazione a una difesa dell’interesse nazionale, in primis in ambito europeo, e a una politica estera guidata direttamente dal premier e dai leader dei partiti (si pensi al protagonismo di Salvini in Libia o altrove o alle polemiche tra Di Maio e Macron), piuttosto che dai ministri.

Nel complesso, però, il livello di cambiamento della politica estera italiana (con la considerevole eccezione del memorandum of understanding firmato con la Cina per la “nuova via della seta”) è apparso limitato. Ogni decisione in ambito di politica di difesa (per esempio le missioni militari) è stata confermata e i “nuovi” rapporti bilaterali si sono rivelati perlopiù simbolici (come la breve liaison con l’Ungheria di Orbán). Infine, al di là dell’aperta ostilità contro i burocrati europei (pur con toni diversi, già adottata da Renzi), nessun dossier rilevante in ambito comunitario ha subito cambiamenti sostanziali: si pensi alla battaglia sulla legge di bilancio finita con un accordo per evitare infrazioni, tra le pressioni dei mercati. È ragionevole pensare che i forti vincoli internazionali e domestici (il governo aveva chiaramente una componente istituzionale riconducibile al presidente della Repubblica) abbiano limitato notevolmente la discontinuità in politica estera.

L’esistenza di vincoli interni può rassicurare coloro che auspicano – di fronte alla urlata e sgangherata retorica sovranista – una continuità di fondo nella politica estera e di difesa italiana. Al contempo, però, la convinzione che “non ci sia alternativa”, che esista una via giusta, “tecnica” e non ideologica – e quindi realizzabile dai tecnici e non dagli attori politici – appare controproducente, dato il successo del messaggio populista, e – sostanzialmente – non democratica.

© Riproduzione riservata

© Riproduzione riservata