Come un labirinto in cui più ci si addentra, meno si intravede l’uscita. Fino a smarrire la destinazione. Non più il dialogo, ma la de-escalation. Alla vigilia del faccia a faccia tra il presidente serbo, Aleksandar Vucic, e il premier del Kosovo, Albin Kurti, il primo dagli scontri nel nord dell’ex provincia serba che hanno provocato il ferimento di trenta soldati del contingente Nato in Kosovo (Kfor), le aspettative che si arrivi a una svolta nelle relazioni tra i due nemici sono ridotte al lumicino.

La crisi scoppiata a fine maggio nel nord a maggioranza serba ha finora interrotto il dialogo Belgrado-Pristina che con fatica Bruxelles e Washington avevano cercato di riavviare dopo anni di stop. Una mossa resa urgente dall’invasione russa dell’Ucraina con l’obiettivo di mettere in sicurezza i Balcani occidentali e prevenire un contagio del conflitto in Europa, disinnescando la più potente delle leve ancora in mano alla Russia nella regione, il Kosovo, ex provincia serba la cui indipendenza non è riconosciuta anche da Mosca e Pechino.

Finora però la missione di Ue e Usa non solo è rimasta incompiuta, ma si è anche rivelata controproducente. Le trattative sono andate in direzione opposta al percorso tracciato mesi fa: mettere fine alla gestione permanente di crisi per concentrarsi sulla normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina, con un’intesa modellata su quella che regolò i rapporti tra Germania est e Germania ovest durante la Guerra fredda.

Di più: la frustrazione generata dai falliti tentativi di attuare l’intesa ha avuto profonde ripercussioni sul campo, destabilizzando l’area. E così il nord del Kosovo è tornato a ribollire e anche se ora «la situazione è calma, il rischio che si deteriori è dietro l’angolo», ha avvertito il comandante della Kfor Angelo Michele Ristuccia in vista del nuovo round di negoziati a Bruxelles. Una situazione che descrive come «molto volatile» in cui «ogni volta si arriva a un equilibrio sempre più fragile di quello precedente». Per questo, quasi al termine del suo mandato, Ristuccia ha chiesto di nuovo a gran voce «una soluzione politica» che risolva una «moltitudine di questioni» in sospeso.

Un approccio equilibrato

Difficile però che l’orizzonte si schiarisca. A minare la credibilità del processo, secondo Pristina, è la non equidistanza dei mediatori tra le parti. La settimana scorsa, la presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, in visita alla Nato, ha esplicitato ciò che tanti, anche al di fuori dei confini nazionali, pensano, sotto lo sguardo accigliato del segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg.

Osmani ha fatto appello ai mediatori europei affinché garantiscano «un approccio equilibrato come prerequisito per il successo del processo». «Ci sono stati momenti – ha poi incalzato – in cui non abbiamo visto questo equilibrio».

E al netto delle intemperanze di Kurti, l’asimmetria tra le due parti è un dato di fatto. In merito alle crisi degli scorsi mesi, il Kosovo si è ritrovato da solo sul banco degli imputati, “condannato” dagli alleati all’esclusione dall'esercitazione militare Nato a guida americana Defender 23, alla cooperazione finanziaria con l’Ue e alla sospensione di visite e contatti di alto livello.

Un conto politicamente ancor più salato se si considera il trattamento riservato alla Serbia, poco più che un buffetto sulla guancia, che sin dall’inizio del processo ha avuto un atteggiamento a dir poco riluttante, rifiutandosi persino di siglare l’intesa di Ohrid, passata alla storia come “l’accordo concordato ma non firmato”.

Sperare in Trump

L’appello di Osmani però a destinato a cadere nel vuoto e questo almeno per due motivi: il primo è che ha perso di credibilità la prospettiva dell’adesione della Serbia in Ue in cambio di boccone amaro da digerire per Belgrado, il riconoscimento del Kosovo, sia pure di fatto. Il secondo è che il perno della strategia europea e americana è di spezzare il legame della Serbia con la sua storica alleata, la Russia. Il rischio è che questo ragionamento si riveli miope sul lungo periodo.

Ed è proprio al lungo termine che Vucic ha costantemente guardato, mentre conduceva le danze diplomatiche trascinando tutte le parti coinvolte in un’infinita procrastinazione che molto probabilmente giocherà a sfavore di Pristina, dei Balcani e dell’Europa. Sul lungo termine, per Vucic, c’è la fine della guerra in Ucraina e l’allentamento delle pressioni dei mediatori, Ue e Usa, entrambe alle prese nel 2024 con le elezioni.

Un passaggio delicato da cui potrebbero emergere equilibri più favorevoli alla Serbia, che spera nello spostamento a destra dell'Ue e nella rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma temporeggiare espone la regione a una maggiore instabilità. E non è un caso che nel ginepraio balcanico si appresti ad avere un ruolo più attivo la Turchia, che da ottobre prenderà il comando della Kfor, dopo aver già inviato dei rinforzi a maggio.

La stessa Turchia che in questi anni ha lavorato a consolidare i rapporti non solo con gli Stati a maggioranza musulmana, come Kosovo e Bosnia-Erzegovina, ma anche con la stessa Serbia, controbilanciando altre potenze, dalla Cina alle monarchie del Golfo, che hanno approfittato del vuoto lasciato nella regione dall’Ue.  

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