Quindici dollari di salario minimo all’ora: doveva essere questo il primo obiettivo, non solo di Joe Biden presidente, quanto dell’ala progressista del Partito democratico. Bernie Sanders, inquadrato in un angolino coi suoi guantoni di lana nel giorno del giuramento, era pronto a fare i salti di gioia, visto che lui è, da anni, in prima linea a spingere per questa proposta. E invece bisognerà quantomeno aspettare, perché dove non è riuscita l’opposizione interna al partito e quella massiccia dei repubblicani, pare che sia riuscita la burocrazia: il progetto del minimum wage inciampa sulle regole del Senato.

La svolta

Attualmente il salario minimo orario è di 7,25 dollari all’ora. Questa è la cifra a livello federale, la base appunto, che stato ed enti locali non possono abbassare, ma che hanno la possibilità di innalzare. Il distretto di Columbia, e quindi la capitale Washington, ha ad esempio già fissato il suo minimo a 15 dollari. La città di Portland, nel Maine, si è portata avanti a tutti, con 18 dollari. Uno stato, se vuole e ci sono le condizioni politiche per farlo, può già alzare i propri standard. Il punto è trovare un nuovo equilibrio per tutti gli Stati Uniti: Alabama, Georgia, e molti altri stati sono fermi a 7,25. Sul minimum wage si gioca una battaglia politica in corso da ben prima della pandemia. Nel 2016 ad esempio, durante le primarie del partito democratico, già si declinavano le differenze tra l’ala più radicale e quella più moderata, con Bernie Sanders a spingere per i 15 dollari per tutti, e Hillary Clinton che propendeva per i 12 e per incoraggiare semmai gli enti locali a fare di più. Tuttavia è dal 2009 che lo standard federale rimane fermo a 7,25 dollari. Nel 2019 il Congresso ha approvato il Raise the minimum wage act, che prevede un aumento del salario minimo orario di anno in anno, fino ad arrivare ai 15 dollari nel 2025. Ma il piano è stato bloccato al Senato.

Tra 2020 e 2021 due fattori hanno spinto in avanti il dibattito: la pandemia e il cambio al governo. A gennaio Biden ha annunciato che «dev’esserci un minimum wage di 15 dollari all’ora per tutta la nazione, perché non è concepibile che chi lavora 40 ore a settimana possa ancora vivere sotto la soglia di povertà». Il proposito è finito nel relief package, il Recovery in versione Usa. Questo pacchetto di ristoro da quasi duemila miliardi va al voto questo venerdì al Congresso e porta i segni del ruolo sempre più incisivo dell’ala progressista del partito: non c’è solo l’impronta di Sanders, senatore socialista del Vermont che con l’amministrazione Biden ha assunto il ruolo (influente) di presidente della commissione Bilancio del Senato. C’è anche e soprattutto la pressione della nuova generazione di sandersiane democratiche; prime fra tutti, Alexandria Ocasio-Cortez e le altre elette della Squad. Perciò il piano di ristoro arriva al Congresso con all’interno il salario minimo da 15 dollari, un assegno (stimulus check) da 1.400 dollari, l’estensione degli ammortizzatori sociali – per i disoccupati, sarebbero terminati altrimenti a marzo – e fondi in più per il diritto a casa e alimentazione, 130 miliardi per le scuole; ovviamente, soldi per vaccinazioni e test. Il pacchetto sarà sdoganato entro metà marzo. Ma c’è un ostacolo sulla strada del salario minimo, e si presenta sotto l’abito dell’impedimento burocratico.

Gli ostacoli

Il pacchetto di ristoro è stato concepito dai democratici in modo da svicolare l’ostracismo dei repubblicani. I dem hanno i numeri in entrambe le camere, ma con margini stretti – dieci voti – al Congresso e un fifty-fifty al Senato, diviso a metà. Perciò hanno deciso di ricorrere a una procedura accelerata, nota come budget reconciliation, che consente al parlamento di intervenire su spesa pubblica e fisco con una maggioranza semplice. Con questo tipo di iter, non è possibile far approvare in Senato anche la misura sul salario minimo: così dice ora Elizabeth MacDonough, avvocata e parlamentarian della Camera alta; il suo ruolo si presenta come tecnico, perché consiste nel verificare il rispetto dei protocolli dell’assemblea, ma la sua decisione di giovedì finisce per avere effetti assai politici. Nancy Pelosi, la dem speaker del Congresso, ha garantito che «la misura sul salario resta nel piano al voto alla Camera», ma il problema resta al Senato. Ocasio-Cortez ha fatto intendere che se i democratici dovessero sacrificare il minimum wage, allora il supporto dell’ala progressista al pacchetto sarebbe in discussione. O meglio, «se la misura viene espunta per questioni procedurali, è un conto; se invece la mossa è dovuta a ragioni politiche, siamo in serio imbarazzo». Se i 15 dollari non passano nel piano di ristoro, le alternative legislative saranno più ostiche.

Il dibattito è caldo anche in Europa. La Commissione europea in autunno ha lanciato una proposta di direttiva per un salario minimo «adeguato». A Bruxelles, come a Washington, il Covid-19 ha spinto all’azione. Il numero di persone (perlopiù donne) che, pur lavorando, sono in povertà sale (era l’8,3 per cento della forza lavoro Ue nel 2007, il 9,4 nel 2018). Ma anche nel caso europeo l’ambizione iniziale si attenua alla prova dei fatti. La direttiva chiede agli stati di favorire un salario adeguato, ma «fa a meno di definire uno standard minimo» dice la confederazione dei sindacati europei (Etuc), che invoca garanzie più stringenti. Da qualunque continente la si guardi, alzare il salario è più facile a dirsi che a farsi.

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