Hanno adottato come simbolo della propria protesta il saluto con le tre dita tese reso celebre dal film hollywoodiano Hunger Games, il quale tratteggia un futuro distopico e fantascientifico dove un popolo soggiogato è chiamato a sollevarsi contro i suoi aguzzini. Inondano a migliaia e su base ormai quotidiana le strade della capitale thailandese Bangkok, sfidando tanto i divieti imposti dal governo in carica sin dal golpe militare del 2014, quanto lo spettro del Covid-19 e il rischio sempre incombente di contagio.

Sfoggiano uno zoccolo duro di simpatizzanti che provengono in particolar modo dalle file degli studenti universitari e dalle fasce più giovani della popolazione, dando voce a una netta frattura generazionale che ha spaccato la Thailandia in due tronconi: da un lato una gioventù stanca delle continue interferenze di forze armate e monarchia nella sfera politica; dall’altro, invece, una classe dirigente gerontocratica e tradizionalista, interessata a salvaguardare a tutti i costi l’alleanza fra la casa reale e i generali che negli ultimi decenni ha tarpato l’evoluzione in senso democratico del paese.

Proteste ostinate

A otto mesi di distanza dalla comparsa delle prime manifestazioni, organizzate nello scorso febbraio per opporsi alla dissoluzione ordinata dalla Corte costituzionale del principale partito d’opposizione progressista, i protagonisti delle proteste antigovernative contro l’esecutivo guidato dall’ex militare Prayut appaiono più determinati che mai a promuovere le proprie istanze, oltre che consapevoli di aver già scritto una pagina memorabile nella storia politica della Thailandia.

I cortei che anche nel corso dell’ultima settimana si sono snodati nel centro di Bangkok con ordinata ostinazione incarnano, infatti, il più audace e significativo tentativo di porre un argine allo strapotere della monarchia sin dalla lontana rivoluzione del 1932, la quale aveva posto le basi per la trasformazione in senso costituzionale nell’assetto monarchico dell’allora Siam.

Il ruolo della monarchia

Un’epocale riforma che, tuttavia, non ha trovato riscontro nella prassi dei successivi sovrani thailandesi, i quali hanno gradualmente consolidato un modus operandi condito da continue interferenze nell’arena politica, nonché da un’endemica propensione a tramare dietro le quinte contro politici sgraditi anche a costo di ispirare colpi di stato di matrice militare.

Protetta da una serie di leggi draconiane fra cui svetta il reato di lesa maestà, che punisce implacabilmente chiunque critichi o diffami l’operato della monarchia, l’immobile e desueta architettura istituzionale della Thailandia si è dunque perpetuata sino ai giorni nostri, resistendo a varie ondate di democratizzazione su scala globale così come ai periodici rigurgiti della società civile, la quale non ha mai perso di vista l’ideale di una nuova rivoluzione pacifica animata da principi liberali e libertari.

Richieste non negoziabili

Non a caso, il momento più simbolico delle mobilitazioni in atto si è consumato all’inizio di agosto, quando lo studente poco più che ventenne Panusaya Sithijirawattanakul si è presentato dinanzi a una piazza colma di manifestanti per rivolgere al sovrano Rama X una lista di richieste non negoziabili, come prezzo per la cessazione immediata delle proteste

Il manifesto, declinato nelle settimane precedenti nei gruppi di discussione virtuali ove si raccolgono migliaia di studenti, giovani avvocati ed esponenti di punta dell’associazionismo locale, ha espresso rivendicazioni assolutamente senza precedenti, le quali scalfiscono l’aura di intoccabilità che ha storicamente ammantato la monarchia thailandese.

Le più rilevanti riguardano la cancellazione dell’immunità legale a beneficio del monarca, l’abrogazione del reato di lesa maestà, il divieto in capo agli stessi appartenenti alla casa reale di condurre qualsiasi tipo di attività politica, come pure l’apertura di un’inchiesta nazionale per far luce sulle numerose sparizioni di attivisti critici del regime che si sono registrate con preoccupante frequenza a partire dal golpe di sei anni fa.

Prevedibilmente, il duopolio composto dal re e dal premier Prayut ha seccamente respinto le richieste dei dimostranti, bollandole come eresie in grado di distruggere l’unità nazionale.

Il regime e il Covid-19

Al contrario, all’inizio di ottobre il regime ha abilmente sventolato lo spauracchio del Covid-19 per emanare sia un divieto contro ogni forma di assembramento di più di quattro persone, sia un coprifuoco notturno. Entrambi i provvedimenti sono stati platealmente disattesi dai manifestati, i quali, al contempo, dopo il confronto diretto con il sovrano di due mesi fa e l’elencazione delle richieste per la radicale riforma dell’ordinamento politico hanno visto crescere ulteriormente il proprio tasso di consenso fra la popolazione, attraendo nei propri ranghi numerosi colletti blu.

Questi ultimi, che invocano cambiamenti epocali anche nel tessuto socioeconomico al fine di ridurre le visibili disuguaglianze di reddito ad appannaggio di una ristretta élite, hanno perciò fornito nuova linfa vitale alla sollevazione generale nata lo scorso inverno nei campus universitari e nei forum online, permettendole di acquisire ulteriore risonanza.

Silenzi internazionali

Ciò nonostante, da un punto di vista internazionale si sono registrate soltanto deboli e sparute rimostranze contro i tentativi di repressione delle proteste operati in patria dal regime di Prayut. Anche da questo punto di vista, la concomitanza della crisi thailandese con la diffusione della pandemia sembra aver giocato a favore del governo, drenando tutte le energie della comunità internazionale verso la formulazione di una risposta coordinata alla sfida incarnata dal coronavirus.

La notizia della chiusura di un’emittente televisiva tacciata di supportare le manifestazioni antigovernative per mano della corte costituzionale di Bangkok è caduta sostanzialmente nel dimenticatoio tanto sulle pagine dei media occidentali quanto su quelle dei principali organi d’informazione della regione, sebbene essa rappresenti l’ennesima svolta in senso autoritario imboccata dal regime thailandese.

Non stupisce, peraltro, che la maggiore organizzazione multilaterale dell’area, ovvero l’Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean), abbia adottato un profilo assai basso nel pronunciarsi circa le sollevazioni in atto all’interno di uno dei suoi stati fondatori.

Fedele al proprio approccio laico e pragmatico in tema di promozione della democrazia e dei diritti umani, anche l’Asean ha dunque voltato le proprie spalle alla galassia dei movimenti sociali thailandesi, lasciandoli a misurarsi con un avversario altrettanto risoluto nel quadro di un confronto che è destinato a sancire il futuro politico del paese.

© Riproduzione riservata