Questo concetto nasconde un più ampio tentativo di riorientamento psicologico e affettivo a una dimensione di quotidianità segnata dalla guerra, in difesa dello stato come progetto etico collettivo sotto perenne minaccia. Proprio per questo motivo dobbiamo esorcizzarlo
Secondo Vladimir Putin, il conflitto russo-ucraino non è una normale guerra: si tratta piuttosto di una “guerra esistenziale”. Sulla sua stregua, i commentatori e i funzionari russi hanno da tempo preso a suggerire che, senza la totale sconfitta dell’Ucraina, la Russia sarà costretta a un conflitto nucleare, perché ne andrà della sua stessa esistenza come progetto di vita collettiva.
Già da tempo il gergo dell’esistenzialismo bellico s’era infiltrato tra i politici e i generali israeliani, come plasticamente esemplificato dal controverso libro del giornalista Ari Shavit, Existential War: From Disaster to Victory to Resurrection. Secondo Shavit, per la prima volta nella sua storia, Israele si trova in un confronto diretto con una potenza sub-nucleare regionale che dispone di eserciti terroristici fantoccio e ha come alleati Russia e Cina. Con la fine della pax americana, pertanto, non si tratta di difendere la sicurezza di Israele, ma la sua esistenza come progetto politico.
La magnitudine
Cos’è, allora, una guerra esistenziale? A tutta prima, sembrerebbe implicare una magnitudine specifica del conflitto tale per cui ne va dell’esistenza di uno stato. La guerra sarebbe “esistenziale” perché destinata a incidere sull’intera vita collettiva. Viene tuttavia da chiedersi quale conflitto non comporti un rischio, grande o piccolo, per la comunità politica nel suo intero. Con tutta evidenza, dunque, tra le implicazioni del concetto in questione dev’esserci qualcosa di più, un qualcosa che viene trasmesso attraverso la parola stessa senza ricorso a formulazione esplicita – una sorta di allusione complice a qualcosa che va pian piano sedimentandosi nella nostra cultura politica di fondo.
In effetti, con intimazione sorniona, il termine “guerra esistenziale”, sempre più utilizzato sui giornali e nelle televisioni, invita alla presa d’atto che le comode guerre per procura della seconda metà del Novecento sono terminate, che i conflitti per interposta popolazione non sono più un’opzione nell’ampio novero delle armi sporche. Richiama così l’odierno prodursi di conflitti la cui estensione inerisce al profondo della nostra quotidianità in modo diretto e potenzialmente fatale.
A questo primo aspetto, in parte benefico, di una maggiore consapevolezza dei costi reali della guerra si associa però un riflesso condizionato, assai più pericoloso data la sua natura indefinitamente superegoica. L’aggettivo “esistenziale” sembra infatti celare un richiamo etico all’uscita dallo stato di languido edonismo cui ci hanno costretti decenni di pace localizzata – ovvero, la pace garantita dall’esternalizzazione dei conflitti. L’appello, dunque, a una più pronta e pugnace disposizione alla difesa, finanche armata, di ciò che garantisce la nostra vita quali membri di un progetto politico collettivo.
L’inimicizia politica
E proprio tra queste pieghe meno visibili del concetto a me pare emerga l’elemento che più seduce chi utilizza la guerra come mezzo per consolidare un potere innanzitutto personale. Questo elemento è l’inimicizia politica: l’idea secondo cui l’esistenza di uno stato è sempre contro qualcuno. Non un semplice qualcuno che si elegga a proprio avversario o rivale, bensì un’entità collettiva la cui mera esistenza costituisce per noi un pericolo letale.
Per questa ragione, l’inimicizia politica implicitamente comanda la disponibilità a uccidere ed essere uccisi: il semplice richiamo a una minaccia esistenziale dovrebbe poter sospendere la nostra vita ordinaria e indurre in noi una marziale predisposizione all’esito estremo e ineluttabile della guerra.
Il concetto di guerra esistenziale nasconde allora un più ampio tentativo di riorientamento psicologico e affettivo a una dimensione di quotidianità segnata dalla guerra, in difesa dello stato come progetto etico collettivo sotto perenne minaccia. E proprio perché questo concetto rischia di sedurre e attecchire, bisogna evitare ogni nostra collusione, denunciarne la subliminale pedagogia guerresca e quindi bandirlo, come si fa con il turpiloquio e le espressioni blasfeme.
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