Mentre il papa si reca a Marsiglia per un viaggio di due giorni dal forte carattere interreligioso, le ombre sollevate dal caso dell’ex gesuita Marko Rupnik, accusato di aver abusato in vario modo di diverse donne, religiose e laiche, nell’arco di circa un trentennio, non accennano a diradarsi.

Da ultimo ha destato scalpore il comunicato del Vicariato di Roma con il quale si annunciava che la “visita canonica” condotta sul Centro Aletti di Roma, l’istituto-atelier a lungo diretto dallo stesso Rupnik, si era conclusa non riscontrando criticità e prendendosela, neanche a dirlo, con «la veemenza dei media». 

Conclusione che contraddiceva platealmente sia quanto aveva riscontrato la Compagnia di Gesù che, dopo una lunga resistenza, aveva deciso di espellere dall’ordine l’artista-teologo di fama mondiale, (dando quindi credito alle tante testimonianze raccolte), sia le decisioni prese dall’ex Congregazione per la dottrina della fede che aveva fatto ricorso persino a una scomunica “latae sententiae”, cioè automatica, nei confronti del religioso di origine slovena, successivamente un po’ misteriosamente revocata (ufficialmente perché l’ex gesuita si sarebbe pentito). 

Rupnik e Maciel

Il caso Rupnik, dunque, per l’impatto avuto sulla vita della Chiesa, può essere considerato l’equivalente per papa Francesco di ciò che fu la vicenda di padre Marcial Maciel, il tenebroso fondatore dei Legionari di Cristo, per Giovanni Paolo II? Il parallelo è pesante ma assai meno azzardato di quanto si pensi.

Diversi elementi delineano una similitudine fra i due casi: gli abusi sessuali reiterati negli anni su diverse vittime, secondo le numerose testimonianze raccolte, uniti al prestigio di cui godeva Rupnik come artista-teologo ascoltato e rispettato, (così come di forte prestigio godeva Maciel anche in ambienti sociali altolocati), sia all’interno delle comunità da lui fondate, sia all’interno della chiesa a vari livelli.

La capacità di raccogliere fondi e costruire una ricchezza per sé stessi e le proprie organizzazioni, tale da garantirgli una certa autonomia operativa; le protezioni di cui hanno entrambi goduto per molti anni nell’ambito delle alte gerarchie ecclesiastiche i gravi ritardi con i quali sono stati perseguiti i due casi stanno lì a testimoniarlo (nella querelle su Maciel furono chiamati in causa oltre a Wojtyla i cardinali Angelo Sodano e Stanislaw Dziwisz, tra gli altri).  

Mafia e insabbiamenti

Si ricorderà che padre Maciel operò indisturbato per diversi decenni, passando attraverso diverse epoche e pontificati, e che l’unico provvedimento contro di lui fu preso – una volta scomparso Wojtyla – da Benedetto XVI che nel 2006 gli impose «una vita riservata di preghiera e di penitenza».

Venne comunque risparmiato al fondatore dei Legionari, a causa dell’età avanzata e delle condizioni di salute, il processo canonico.

Nel 2019, l’attuale prefetto del Dicastero per gli istituti di vita consacrata, il cardinale brasiliano Joao Braz de Aviz, in un’intervista al periodico spagnolo Vida nueva affermò che il Vaticano era in possesso delle prove degli abusi perpetrati da Maciel su minorenni, dal 1943 (Maciel si rivelò anche padre di diversi figli avuti con donne diverse, abusatore seriale e tossicodipendente).

«Chi lo ha coperto era una mafia, non rappresentava la chiesa», ha chiosato poi il cardinale in una dichiarazione di certo molto impegnativa a giudicare almeno da quanto gli insabbiamenti dello scandalo pedofilia-abusi ha scosso la chiesa universale.

E, appunto, i fondatori di comunità a movimenti nuovi, come anche Rupnik e la sua Comunità Loyola in Slovenia, si sono dimostrati nel tempo figure particolarmente a rischio.

«L’abuso di autorità presuppone un carisma. Ad accecare è stato certamente - per quanti di loro erano preti – il loro ruolo, sacralizzato, in questi ambienti cattolici in cui non si poteva nemmeno concepire che “un uomo di Dio” potesse commettere abusi».

È quanto osserva Céline Hoyeu, giornalista francese del quotidiano La Croix, autrice del recente volume Il tradimento dei padri. Manipolazione e abuso nei fondatori di nuove comunità, curato nella versione italiana dalla direttrice di Adista Ludovica Eugenio.

«Le critiche che oggi pesano sulla chiesa istituzionale – si legge ancora - sono gravi. I vescovi sono accusati di aver lasciato mano libera a degli apprendisti stregoni, senza alcun controllo esterno, senza contropoteri, abbandonandoli alla loro onnipotenza».

I silenzi del papa

Nel caso Rupnik colpiscono alcuni aspetti: in primo luogo le reticenze e i sostanziali silenzi dello stesso pontefice, quasi non volesse credere che un gesuita, amico personale e artista di fama mondiale, potesse essere accusato di abusi da diverse religiose.

Di questa incredulità c’è una traccia in quanto Bregoglio disse all’agenzia Associated press sul caso in questione: «Per me è stata una sorpresa, davvero. Questo, una persona, un artista di questo livello, per me è stata una grande sorpresa e una ferita».

D’altro canto non è la prima volta che il papa manifesta una certa diffidenza di fronte ad eventi simili; si ricordi quanto avvenne in Cile con il caso del vescovo Juan Barros, accusato di aver coperto gli abusi di un altro oscuro prete manipolatore, legato per altro in passato alla dittatura di Pinochet, Fernando Karadima. Francesco prima parlò di calunnie poi, di fronte all’evidenza delle prove, fece dimettere Barros e spretò Karadima (2018). Ma la prima reazione fu quella dell’evocazione del complotto contro la chiesa.

La trasparenza resta un optional

Nel caso Rupnik non sono bastate, evidentemente, le testimonianze di numerose vittime abusate e poi minacciate, che pure hanno portato la Compagnia di Gesù ad espellere il religioso dall’Ordine.

Ancora, nel comunicato diffuso dal Vicariato lunedì scorso si affermava che anche la scomunica comminata a suo tempo dal Vaticano contro il religioso-artista, era frutto di «procedure gravemente anomale», senza naturalmente specificare quali.

E certo non è passata inosservata la notizia della rinuncia, resa nota ieri dal Vaticano, del carinale Luis Ladaria, anch’egli gesuita, a partecipare al sinodo dei vescovi di ottobre (ha chiesto la dispensa al papa), da poco ex prefetto della Congregazione della dottrina della fede, e quindi responsabile del procedimento contro Rupnik.

Non vi è nessuna certezza in merito, ma certo la tempistica della rinuncia fa quantomeno ipotizzare una possibile relazione fra i due fatti. Sta di fatto che la trasparenza nei casi di abuso sessuale gestiti dall’autorità ecclesiastica, resta un optional, un rubinetto che si può aprire e chiudere a seconda della convenienza.

Il caso Rupnik comincia dunque a pesare come un macigno sulla coda di questo pontificato, mettendo in discussione anche quei passi avanti compiuti da Francesco nel contrasto delle violenze commesse dai chierici.  

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