Fin dalla nascita degli Stati Uniti d’America, l’uso pubblico della storia ha avuto un’importanza nodale nella visione che si voleva trasmetterà della repubblica.

Innanzitutto, per trovare una legittimità a queste istituzioni senza uguali nel mondo. Certo, a fine Settecento, non ci si poteva rifare all’esempio delle decadenti repubbliche aristocratiche italiane, né tantomeno alla confusionaria e debole confederazione elvetica, scossa dai conflitti religiosi.

Il legame, vecchio di millenni, come giustamente suggerito da Donald Trump durante il Columbus Day del 2019 ma non compreso da commentatori disattenti, era con l’antica Roma repubblicana, come suggeriscono il Campidoglio che ospita il Congresso e il nome stesso di uno dei due rami parlamentari, il Senato.

Il proliferare di revisionismi storiografici ha radici profonde, e risale a ben prima della presentazione del 1619 Project del New York Times, avvenuta nel 2019, seguito dalla 1776 Commission degli ultimi mesi di presidenza Trump nel 2020 e infine dal Texas con il suo 1836 Project.

Dopo la Guerra civile

Andiamo però alle origini, alla fine della guerra civile, quando viene pubblicato, nel 1866, un libro scritto dal giornalista della Virginia Edward Pollard dal titolo The Lost Cause e sottotitolato: “Una nuova storia sudista della guerra dei confederati”.

Nel libro era contenuto quello che sarebbe diventato il pensiero mainstream della nazione sulla Guerra civile per molti anni, grazie anche a un ampio battage propagandistico da parte di associazioni come le United Daughters of the Confederacy: la schiavitù era un problema marginale, il conflitto tra nord e sud era sui dazi e sul modello di sviluppo economico, il sud è stato compatto nel reagire all’aggressione nordista, che era inarrestabile per la superiorità di uomini e mezzi.

Per quanto riguarda gli schiavi, furono in gran parte fedeli ai vecchi padroni. Tutto ciò era falso e bastava andarsi a leggere un qualunque discorso della leadership confederata per capire quanto la “peculiare istituzione” fosse ciò per cui combattevano, per preservarne il potenziale economico.

Mentre i veterani dell’Unione non se la bevvero, il resto della nazione, dopo che nel 1876 gli Stati Uniti ritirarono le truppe dal sud, cercò la riconciliazione tra bianchi, tradendo le speranze dei sudisti.

Ma in questo modo, se al nord si poteva essere fieri del presidente Lincoln, morto da martire (omettendo che il suo assassino John Wilkes Booth era un simpatizzante confederato), al sud c’era il fiero generale Robert Lee, imbattuto sul campo di battaglia, sconfitto solo per essere stato “malconsigliato” dai suoi sottoposti.

Questa narrazione però, dietro i lucenti monumenti agli eroi di guerra in giacca grigia, nascondeva un sistema monopartitico basato sulla segregazione razziale, intrinsecamente violento e immobilista.

Questa revisione arrivò a tal punto tanto da intitolare numerose basi militari a ufficiali confederati, un onore insolito per un esercito nemico che ha inflitto più lutti allo Zio Sam della Germania nazista e dell’Unione Sovietica.

Statue rimosse per decreto

Ultimamente però, al di là delle mediaticamente fragorose distruzioni di statue, la maggior parte dei monumenti dedicati ai secessionisti, anche in aree conservatrici come il Mississippi, è stato rimosso con regolare delibera delle autorità locali varate con ampie maggioranze bipartisan.

Proprio per contrastare un razzismo così profondamente innervato nell’anima della nazione è nato nel 2019 il 1619 Project, un progetto storico di longform journalism con l’obiettivo, ambizioso, di rileggere la storia americana da parte degli schiavi e di mettere in evidenza gli elementi di supremazia bianca che hanno guidato l’evoluzione degli Stati Uniti.

Se da una parte questa rilettura è stata benvenuta per aver messo in luce le ombre lunghe della schiavitù prima e dopo la guerra, alcuni aspetti sono stati deliberatamente falsati per ragioni ideologiche, come l’idea che l’indipendenza fosse stata scatenata per preservare la schiavitù: al netto di Padri fondatori come John Adams che rifiutavano in modo radicale l’idea di avere schiavi, secondo lo storico Gordon Wood, autore del libro The Radicalism of the American Revolution, «nessun colono voleva combattere i britannici per difendere i propri schiavi».

Non solo: la pretesa che, in fin dei conti, Abraham Lincoln fosse a favore della “supremazia bianca” citando alcune frasi fuori contesto come quelle pronunciate durante il dibattito con il senatore democratico Stephen Douglas nel 1858 contro il matrimonio interrazziale, che hanno provocato l’irritazione di uno dei decani della storiografia sulla guerra civile, James McPherson, e ignorando le evidenze storiche contenute nella biografia di Lincoln scritta dallo storico marxista Eric Foner, dove si analizza la sua evoluzione di pensiero nel corso degli anni, che giunge nel 1865 alle porte della piena uguaglianza razziale.

Per rispondere a questa interpretazione un gruppo di accademici afroamericani guidati dall’attivista contro la povertà Robert Woodson, fondatore del Woodson Center, ha creato 1776 Unites, che anziché calcare la mano sullo status di vittima della comunità nera statunitense, ha esaltato quelle figure imprenditoriali che si sono fatte strada in contesti difficili come l’agronomo George Washington Carver, inventore di un sistema per fertilizzare i campi di cotone, o l’imprenditrice immobiliare Biddy Mason, nata in schiavitù e fondatrice di un piccolo impero economico a Los Angeles.

Non poteva sottrarsi alla sfida nemmeno l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che in piena campagna elettorale aveva lanciato lo scorso settembre il 1776 Project per promuovere l’educazione patriottica, formando una commissione composta da sedici persone, di cui nessuno storico e molte figure mediatiche conservatrici come il leader degli “studenti per Trump” Charlie Kirk o l’ex governatore del Mississippi Phil Bryant, ideatore del Confederate Memorial Day nel 2016.

Non proprio una squadra neutrale, dove l’unico con un retroterra accademico era il classicista Victor Davis Hanson, editorialista del sito ultratrumpiano American Greatness.

La controcommissione di Trump

Due anni prima della scadenza del mandato di Trump, il 18 gennaio 2021, hanno presentato un rapporto che individuava il “progressismo” come nemico dello spirito americano, dimenticando che il moderno divulgatore del termine è stato un ex presidente repubblicano, Theodore Roosevelt, ma che secondo l’analisi della comunità accademica era pieno di errori marchiani e totalmente privo di note e di riferimenti bibliografici.

Insomma, un pamphlet polemico che se la prendeva contro i nemici ideologici del presidente, tra cui la identity politics, collegata a uno dei giganti del pensiero conservatore americano come John Calhoun, grande difensore dell’autonomia degli stati nei confronti del governo federale e fautore e del «bene positivo della schiavitù».

Insomma, un pasticcio che forse non sarebbe andato bene neppure come paper per un esame di storia americana all’università. Il giorno dopo l’inaugurazione di Joe Biden, infatti, è finito nel cestino e la commissione per l’educazione patriottica è stata cancellata.

Educazione texana

Ma quello che non si può cancellare invece è l’idea del Texas ha di sé: come ha detto il governatore repubblicano Greg Abbott, «tutti i nostri studenti devono capire perché il Texas è così eccezionale».

Quindi ha varato la copia statale del progetto di Trump, il 1836 Project, nemmeno a dirlo, in memoria della fondazione della repubblica del Texas. E a suo modo il Texas, un po’ eccezionale lo è davvero, con le sue radici nativo-americane, ispaniche, anglosassoni e afroamericane.

Tutte queste sono indicate, a onor del vero, nella traccia che dovrà seguire la commissione varata a livello statale per redigere un programma scolastico uniforme. Ciò che viene rimosso, e in questo ha ragione lo storico Arnaldo Testi a parlare di «cancel culture patriotticamente corretta», sono le controversie che minano questa eccezionalità, come il fatto che Sam Houston e gli altri fondatori del Texas indipendente loro sì volevano difendere la proprietà degli schiavi e lo esprimevano nero su bianco nella loro Costituzione o il passato buio del corpo dei Texas Rangers, cacciatori indefessi di schiavi fuggitivi e di nativi americani.

Non si cita mai, e non è un caso, il periodo della segregazione, dove nel 1923 il Texas raggiunge il triste record di escludere i non bianchi dalla partecipazione alle primarie del partito democratico, formazione che dominava la politica dello stato.

Questi progetti così ideologicamente diversi hanno in comune il fine bislacco di voler “fissare” la verità storica una volta per tutte, compito impossibile per una disciplina che invece vive di nuove interpretazioni e di ricerche innovative. Senza queste sfide, crederemmo ancora che i sudisti si fossero staccati dall’Unione per un dazio troppo alto.

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