Ci sono delle figure diplomatiche e accademiche che occupano posizioni oscure e poco conosciute all’interno dello staff presidenziale americano che però acquisiscono col tempo un enorme potere, senza nemmeno venir confermati dal Senato.

Oggi in questa casella troviamo Brett McGurk, un diplomatico con un background da giurista, specialista di Medio Oriente, al centro del gruppo di lavoro che ha negoziato la lunga tregua tra Israele e Hamas che si è interrotta negli scorsi giorni e infine, anche uno dei massimi fautori della linea di vicinanza pressoché incondizionata della Casa Bianca a Israele, tenendo poco conto delle preoccupazioni riguardo alle immense perdite di civili palestinesi sotto il fuoco dell’esercito di Tsahal.

Del resto, la figura di McGurk risalta molto anche perché è una delle pochissime persone ad aver avuto una posizione di rilievo sotto gli ultimi quattro presidenti. Sin dal 2005 quando, dopo un periodo da consulente legale dell’ambasciatore americano a Baghdad John Negroponte, fece il suo ingresso nel Consiglio di sicurezza di George W. Bush quale esperto di Iraq e consigliò all’allora referente della Casa Bianca Stephen Hadley un cambio di strategia che portò al cosiddetto “surge”, un aumento strategico delle truppe.

Il periodo di Obama

Dopo un periodo di pausa, torna nelle grazie del successore di Bush, Barack Obama, che voleva mettere a frutto le sue conoscenze nell’area: nell’agosto 2013 diventa uno dei vice dell’allora sottosegretario di Stato John Kerry che due anni più tardi lo nomina quale referente globale della coalizione informale che si era costituita per combattere la minaccia dello Stato Islamico (Isis) che in quel periodo occupava vaste aree della Siria e dell’Iraq.

McGurk sosteneva che andavano coinvolti anche interlocutori fino a quel momento ritenuti scomodi, come i sunniti iracheni e il governo turco del presidente Recep Tayyip Erdogan.

Un disegno che portò anche i suoi frutti, con la liberazione di Mosul prima e poi anche di Raqqa, avvenuta nell’ottobre 2017, quando ormai Obama aveva fatto le valigie. Perché anche un presidente profondamente anti establishment come Donald Trump ritenne di servirsi di quello che fino a qualche mese prima era un consigliere dell’odiato Obama.

McGurk, senza problemi con la coerenza, disse che era in virtù dell’amministrazione Trump che la lotta all’Isis si era intensificata, omettendo di dire che anche con il suo predecessore a guidare le scelte dell’amministrazione c’era sempre lui, fino a quando arrivarono le sue dimissioni sul tavolo dello Studio Ovale, perché non condivideva il ritiro americano dalla Siria deciso dallo stesso Trump a fine 2018.

Eredità bushiana

Oggi McGurk è il principale artefice della linea da “falco” alla Casa Bianca, che si può sintetizzare con un appoggio di convenienza a Israele perché «nazione più simile all’America», interessandosi poco alla questione palestinese e se possibile facendo ricorso alla bisogna ad alleati come l’Arabia Saudita.

Un approccio che ha causato molta irritazione nelle file dei diplomatici in forza al dipartimento di Stato e su cui il segretario di Stato Antony Blinken poco ha potuto fare se non di dire ai dissenzienti più coriacei che su certe cose non avrebbero potuto toccare palla.

Il mistero è presto svelato: secondo un’indagine dell’edizione americana dell’HuffPost, McGurk è ascoltatissimo non solo dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, ma anche dallo stesso presidente. Nonostante McGurk «abbia una forma mentis da amministrazione Bush», secondo una fonte del dipartimento di Stato.

Se da un punto di vista squisitamente geopolitico al momento ha mostrato di funzionare, questa posizione controversa sta danneggiando fortemente il presidente in patria, che rischia di perde il voto degli arabi americani alle elezioni del 2024, presenti in gran parte i stati in bilico come Michigan e Pennsylvania.

Non è la prima volta che un advisor acquisisce posizioni di potere quasi illimitato: così avvenne anche per Henry Kissinger quando entrò alla Casa Bianca nel 1969 quale consigliere per la sicurezza nazionale di Richard Nixon e, più recentemente, quando il consigliere legale di Donald Trump Stephen Miller tracciò una politica migratoria durissima contro gli irregolari provenienti dal confine messicano, lanciando la discutibile policy di separare i figli minorenni dai propri genitori come una sorta di “disincentivo” per chiunque ci avesse riprovato in futuro.

Queste figure negli anni sono cresciute di numero e acquisiscono sempre maggiore centralità, al di là del ruolo che ufficialmente ricoprono anche per il potere sempre più ipertrofico della presidenza, che qualunque sia il colore politico dell’occupante della Casa Bianca, ha un potere sempre più imperiale.

Tendenza questa iniziata proprio con Nixon, tanto che lo storico Arthur Schlesinger nel 1972 descrisse la sua presidenza come «imperiale».

Questa espansione può essere portata alle estreme conseguenze proprio da un secondo ritorno di Donald Trump: secondo vari retroscena sta preparando una lista di fedelissimi che occupino tutte le caselle disponibili per attuare in pieno le sue pulsioni autoritarie. Portando alle estreme conseguenze la crescita della presidenza a livelli “imperiali”. Magari servendosi ancora una volta di McGurk quale suo consulente per il Medio Oriente.

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