La storia dei dibattiti presidenziali americani è costellata di brutture ed episodi tranquillamente dimenticabili, ma il primo confronto televisivo fra Donald Trump e Joe Biden si candida per superarli tutti. A Cleveland sono andati in scena novanta minuti di reality show formalmente condotti dal moderatore, Chris Wallace di Fox News, ma nei fatti controllati dal dominatore incontrastato del format, Trump, che al solito ha interrotto, depistato, abbaiato, insultato, ha cambiato discorso e risposto a vanvera, trascinando gli spettatori nella versione in cravatta regimental della sua timeline di Twitter. È l’ennesimo palco in cui il presidente ha riproposto la massima del suo avvocato e leggendario power broker della politica americana, Roy Cohn, che diceva: «Colpisci sempre. Non chiedere mai scusa».

Il doppio rifiuto

Trump non solo non ha chiesto scusa, ma ha raddoppiato la posta, almeno su due questioni che sono sotto osservazione in modo particolare: se accetterà in modo pacifico il risultato delle elezioni e se è pronto a condannare e prendere le distanze in modo inequivocabile dai gruppi di suprematisti bianchi che lo sostengono. Secondo pressochè tutti gli studi del settore questi ultimi costituiscono la prima minaccia terroristica all’interno degli Stati Uniti. 

Sulla prima, Trump ha detto: «Chiedo ai miei sostenitori di andare alle urne e guardarsi attorno molto attentamente», rinfocolando la tesi ormai trita e cospiratoria secondo cui il voto via posta è una gigantesca truffa elettorale ai suoi danni. «Se sarà un’elezione corretta sarò d’accordo al cento per cento. Ma se vedrò decine di migliaia di voti manipolati non potrò accettarlo», ha concluso in modo volutamente inconcludente. 

Sulla condanna ai gruppi di estremisti al suo seguito ha detto che certamente è pronto a condannarli, ma allo stesso tempo ha negato che esistano o abbiano avuto un ruolo negli scontri di questi mesi: «Quasi tutto quello che vedo viene dalla sinistra, non dalla destra».

Di fronte all’insistenza di Wallace, che che chiedeva una presa di distanza senza note a margine, è venuto fuori il nome dei Proud Boys, gruppo estremista che negli ultimi anni è stato coinvolto in diversi scontri ed episodi di violenza. 

Trump ha detto: «Proud Boys: state indietro e state a guardare. Ma vi dico una cosa, qualcuno deve fare qualcosa per gli Antifa e la sinistra, perché questo non è un problema della destra, ma della sinistra». Il riferimento è suonato come una specie di chiamata alle armi e ha fatto immediatamente attivare le chat del gruppo su Telegram, dove i promotori hanno definito «storica» al circostanza e hanno detto di aver avuto un’impennata immediata nel reclutamento di nuovi membri.

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Proud Boys
Breve parentesi sui Proud Boys. Il gruppo di inclinazioni neofasciste e misogine è nato nel 2016 su iniziativa di Gavin McInnes, giornalista canadese che è stato fra i cofondatori di Vice. McInnes ha lanciato l’idea dei Proud Boys come una boutade da sottocultura su Taki’s Magazine, la rivista di Taki Theodoracopulos, un ereditiere greco-britannico 83enne che vive fra New York e lo chalet di Gstaad, in Svizzera, e ha navigato per buona parte del secolo scorso nelle acque dell’alta società europea e americana senza fare mistero delle sue idee ultraconservatrici venate di xenofobia. Gianni Agnelli, che lo conosceva bene, lo chiamava «il mio fascista preferito». 

McInnes ha dunque sollevato in quel contesto l’idea dei Proud Boys, gruppo di rivendicazione della mascolinità e dell’identità occidentale il cui nome è ispirato a una canzone della colonna sonora di Aladdin. Il tono dell’iniziativa, allora, era fra il surreale e il provocatorio, un classico del trollaggio della sottocultura dell’estrema destra.

Per entrare nei Proud Boys un aspirante membro doveva giurare pubblicamente di essere un «occidentale orgogliosamente sciovinista che rifiuta di chiedere scusa per aver creato il mondo moderno», doveva dire il nome di cinque cereali da colazione mentre gli altri membri lo prendevano a pugni in faccia, doveva farsi un tatuaggio, dichiarare che non sarebbe mai più masturbato e infine, prova finale, partecipare a una rissa contro gli Antifa. 

Nel tempo questo sottofondo da commedia dell’assurdo organizzata da un hipster di tendenza neofascista è completamente svanito, lasciando il posto alle violenze, alle manifestazioni armate, all’attivismo estremista e a tutto il prontuario di arresti e processi che ne è seguito. Il Southern Poverty Law Center, il centro che monitora i movimenti estremisti in America, ha classificato il gruppo sotto la categoria “general hate”.

La digressione sui Proud Boys citati da Trump serve a rappresentare quella particolare zona di ambiguità comunicativa in cui il presidente agisce quando manda questo tipo di messaggi.

Quello che i critici del presidente leggono come una evidente chiamata alle armi delle milizie della supremazia bianca, i simpatizzanti tiepidi di Trump lo possono giustificare come un appello a una cultura che usa la provocazione come strumento legittimo per conquistare la mentalità mainstream.

Quattro anni fa si è parlato molto della differenza, cruciale, fra chi prende quello che dice Trump «sul serio» e chi lo prende «alla lettera».

I primi sono quelli che gli hanno dato la vittoria, i secondi quelli che non hanno capito che poteva davvero succedere. Il dibattito di ieri notte ha mostrato che quello schema comunicativo non è cambiato.

La reazione di Biden
Costretto a giocare nel campo in cui l’avversario eccelle, Biden è stato a lungo soggiogato dall’incoerente petulanza di un maestro nello spezzare le frasi e i pensieri. Biden lo ha chiamato «bugiardo», «clown», gli ha detto «would you shut up, man?», te ne vuoi stare zitto?, una specie di versione anglofona del mitico «porque no te callas?» che Juan Carlos ha rivolto a Hugo Chavez nel 2008, ma solo in rare occasioni è riuscito a farsi sentire, bucando il continuo rumore di fondo prodotto dall’avversario.

Trump era il catalizzatore unico dello show, tanto che a un certo punto Wallace, in un sussulto di orgoglio, gli ha ricordato: «Sono io il moderatore».

A Cleveland si è consumato quello che la Cnn ha definito un «dibattito veramente terribile», una performance a bassisimo coefficiente informativo e probabilmente assai ininfluente sulle decisioni degli elettori.

A conti fatti, un ottimo disservizio per la democrazia. 

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