Da quando Hamas ha attaccato Israele Yaelle Halimi, una psicologa franco-israeliana, ha ricevuto una moltitudine di chiamate da amici che le chiedevano aiuto. Cercavano da lei un conforto professionale per affrontare un peso emotivo da cui si sentono sovrastati. «Non ho potuto fare altro che dire loro: “Non ce la faccio, non sono capace di aiutarti ora”. Devo prima capire cosa sta succedendo a me. Il dolore è troppo ora» racconta a Domani, la sera di martedì, la prima in cui se l’è sentita di uscire da casa.

La confusione, lo spavento e la sensazione di insicurezza hanno spinto Halimi a lasciare il suo appartamento in centro a Tel Aviv e a spostarsi in un altro edificio non lontano. Lì il portone è perennemente chiuso, si accede con un codice come a Parigi, e una guardia giurata lo sorveglia 24 ore su 24, dice Halimi. L’appartamento ha anche una mamad, la stanza fortificata dove rifugiarsi quando suonano le sirene. Tutto questo la fa sentire più al sicuro.

La percezione della sicurezza

Vari palazzi in alcune zone della città hanno i portoni sempre aperti, un po’ perché sono vecchi, un po’ per il senso di comunità molto stretto che pervade questo paese, dice Halimi. Sicuramente questo aiuta quando suonano le sirene e si è per strada, permettendo di rifugiarsi dentro le mura di un edificio. «Noi ebrei pensavamo di essere protetti, di essere al sicuro qui. Per questo me ne sono andata dalla Francia, dove è pieno di antisemitismo e sono venuta qui. Oggi abbiamo tutti paura» dice Halimi.

Le sue parole danno il senso del trauma individuale e collettivo che gli israeliani stanno attraversando. La strage di civili, compresi bambini piccoli, donne, anziani, anche disabili, lo scempio dei cadaveri, nonché la cattura di 199 ostaggi, commessi da Hamas nel sud del paese ha messo in discussione le fondamenta stesse e la ragion d’essere di Israele: dare agli ebrei un luogo sicuro in cui vivere.

Ora la gente qui dice di sentirsi vulnerabile, come non era mai successo prima. Alle sirene e i boati che si sentono quasi quotidianamente in gran parte del paese, soprattutto nelle zone centrali e meridionali, sanno come reagire. Ci sono quasi abituati.

È capitato a chi scrive di doversi rifugiare sulle scale di un edifico al centro di Tel Aviv al suono delle sirene. Lì c’erano vari giovani che scherzavano tra loro, tra cui uno che a torso nudo si era portato un piatto di pasta al pomodoro che ha continuato a mangiare nei dieci minuti trascorsi sulle scale.

Sono state le immagini e i video delle atrocità commesse da Hamas, che ha ammazzato gente indifesa nei piccoli kibbutz o al festival musicale Supernova, dove si erano radunati migliaia di giovani, a stravolgere la loro percezione di sicurezza e protezione sul suolo israeliano. L’incredulità, la paura e il senso di impotenza hanno traumatizzato la società israeliana. Non avremmo mai pensato che delle mostruosità di massa tali potessero succedere dentro Israele, dicono in molti. La ferita è tale che il 7 ottobre sarà uno spartiacque nella storia del popolo ebraico, un prima e un dopo per Israele, concordano in molti.

Le responsabilità politiche e militari dell’attacco subito, assunte da alcuni ministri e esponenti dell’imponente apparato di sicurezza, ma non dal premier Benjamin Netanyahu, sembrano interessare relativamente poco ora al popolo israeliano, anche se ne è parlato sui media israeliani e internazionali. Ci sarà tempo per commissioni d’inchiesta e indagini che determineranno a chi attribuire la colpa di non essere stati in grado di proteggere i giovani del rave e gli abitanti dei kibbutz. In questo momento ciò che attanaglia il paese è un dramma esistenziale.

Girando per la città di Tel Aviv, si vedono vari piccoli manifesti appesi che citano una frase di Golda Meir riportata in inglese. «Abbiamo un’arma segreta qui in Israele. Non abbiamo nessun’altro posto dove andare».

Le certezze che vacillano

Per alcuni, però, l’attacco ha fatto vacillare anche questa certezza. «Ci si arriva a chiedere se questo è il posto dove vuoi vivere, dove vuoi allevare i tuoi figli» racconta in un’intervista con Domani il giornalista Aron Heller, che ha tre figlie di 11, 8 e 4 anni. «Per me una grande differenza che sta influenzando la reazione delle persone è se hai figli o no. Pensi continuamente che potrebbe essere successo a loro, alla tua famiglia».

In passato Heller, che vive a Kefar Sava e ha il passaporto israeliano, statunitense e canadese ha coperto altre guerre di Israele, lavorando per l’agenzia Associated press. Racconta di aver ricevuto chiamate di lavoro per coprire la guerra ma di averle rifiutate tutte. «Non riesco a lavorare, non riesco a concentrarmi su nulla, è una cosa troppo grande, impossibile da fotografare. L’unica cosa che sono riuscito a fare è scrivere un blog per cercare di esprimere il sentimento collettivo del paese».

Le sirene, i missili e anche gli attentati terroristici di strada, sono tutte cose con cui gli israeliani convivono da anni. E anche se magari non si abitua mai completamente, dice Heller, sono piccoli eventi traumatici che fanno parte della vita in Israele.

«Stavolta però questi traumi del passato devi moltiplicarli per mille. Ora, la sensazione è che non siamo in grado di assorbire ciò che è successo stavolta. Non siamo in grado di affrontare l’enormità della cosa. Io sono un giornalista di formazione, ma su questo evento non riesco a lavorare come avrei fatto in passato, sono troppo sopraffatto, troppo colpito personalmente. E penso sia così per tutti».

Di fronte al ministero della Difesa a Tel Aviv c’è un sit in da giorni dei parenti e amici degli ostaggi rapiti da Hamas nel sud del paese e portati a Gaza. Sono 199, stando alle ultime comunicazioni ufficiali. Shira Albag, madre di Liri, una soldatessa diciottenne rapita da Hamas, dice che stare lì la aiuta a sopportare l’attesa snervante di sapere quale sarà destino di sua figlia.

«Passano amici e anche molti sconosciuti e si fermano qui un po’ per starci vicino» dice mentre molte macchine che transitano sulla strada adiacente suonano il clacson per trasmettere la loro vicinanza. Israele è un paese piccolo, viene descritto da tutti gli israeliani come una comunità molto stretta. «Con chiunque parli vedrai che ti dirà che conosce qualcuno che ha perso un familiare o un amico o che conosce qualcuno che risulta disperso o rapito» dice Doron Kaufman, un amico dei genitori di Liri. «È una tragedia nazionale. Stare vicini a chi è stato toccato direttamente aiuta anche noi ad affrontare il nostro dolore personale».

Danny Matos, uno psicologo israeliano, ha scritto in una sorta di piccolo manuale in 30 punti su come affrontare la situazione, che sta girando sui social e sui cellulari degli israeliani e che Heller ha citato nel suo blog per il Times of Israel. Dice Matos, che la combinazione di tre livelli del trauma – personale, collettivo e intergenerazionale – è letale. «Ogni sua manifestazione, sia che si tratti di un’ondata di ansia, di azioni frenetiche e di ricerca di aiuto o di isolamento paralizzato in casa, di paura, è normale in una situazione così tremendamente anormale».

Raccomanda compassione e tenerezza con le altre persone perché le reazioni di ogni persona sono dettate da una carica emotiva molto forte. Quindi a non concentrarsi solo sul proprio trauma, ma a essere pienamente consapevoli che altri hanno bisogno di aiuto, che è una sofferenza collettiva.

 

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