Avrebbe compiuto cento anni questo mese il filosofo, economista e militante rivoluzionario che aveva previsto gli eventi salienti dell’ultimo mezzo secolo: dalla rivolta studentesca del 1968 alla minaccia costituita dall’espansionismo russo, passando dalla crisi ecologica. 

Nato a Istanbul nel 1922, cresciuto in Grecia e sbarcato in Francia all’età di 24 anni, Cornelius Castoriadis è noto ai più come fondatore del movimento rivoluzionario Socialisme ou Barbarie, ma fu anche alto funzionario presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, dove a fine carriera dirigeva un ufficio di 130 economisti e statistici.

Celebrato da filosofi come Habermas, Bauman, Morin e Baudrillard, oggi viene studiato per la sua teoria dell’immaginario sociale.

La sua fama italiana è inversamente proporzionale a quella francese. Se dalle nostre parti ben poco è stato tradotto, malgrado lo status mitico acquisito dal suo concetto di “autonomia”, in Francia fu almeno tre cose: l’ideologo del Sessantotto, il grande teorico dell’antitotalitarismo e il precorritore della critica dello sviluppo.

Le prime due anime sembrano ormai relegate alla storia delle idee, eppure la terza suscita ultimamente un rinnovato interesse. 

Cattivo maestro

Per capire come coesistono le tre anime, e perché ci parlano ancora, bisogna cominciare dalla prima. Quando la Francia è stata scossa dalla rivolta studentesca del maggio 1968 — che rimette in discussione non soltanto le istituzioni borghesi ma anche e soprattutto il Partito Comunista e il Sindacato, insomma la sinistra come la si conosceva allora — gli osservatori si si sono sforzati di ricostruire la genealogia di quel vento di novità: da dove viene quella rabbia, che cosa rivendicano quei ragazzi, chi li ha ispirati?

Ed è allora che gli sguardi si sono girati tutti verso quella rivista lanciata vent’anni prima e chiusa nel 1965, letta da poche centinaia di persone eppure già leggendaria, cioè Socialisme ou Barbarie.

La sua originalità nel panorama della sinistra dell’epoca stava nella critica precorritrice non soltanto dello stalinismo ma dell’intera esperienza sovietica, oltre che di tutte le burocrazie — incluse appunto quelle del Partito e del Sindacato.

Il modello da perseguire era semmai quello del comunismo dei consigli, contaminato con l’esperienza anarchica.

A causa del suo lavoro all’Ocse, fino al 1970, gli articoli di Castoriadis uscivano sotto vari pseudonimi. Proprio sfruttando i dati, le statistiche, le analisi provenienti dal cuore della macchina tecnocratica europea il filosofo-economista aveva finito per convincersi che il destino del capitalismo moderno sarebbe stato quello di burocratizzarsi, lasciando uno spazio sempre più importante allo stato.

Unico modo per il sistema di salvarsi dalle sue contraddizioni e riuscire a stabilizzarsi temporaneamente, anche attraverso la proliferazione dei consumi. Pianificazione e liberalizzazione erano dunque secondo lui due facce della stessa medaglia, incarnate in Europa dal processo d’integrazione che avrebbe portato dal piano Marshall al mercato unico.

In questo senso l’Unione Sovietica non era un modello alternativo, ma un’immagine del nostro futuro. Si tratta allora di liquidare la parola “socialismo”, foriera di troppi malintesi, per cambiare rivoluzione e costruire una “società autonoma”.

Fin dai primi anni 1960 Castoriadis prendeva atto del fatto che gran parte delle previsioni di Marx non si erano realizzate. Erano gli anni del boom, i proletari si arricchivano e le crisi venivano assorbite.

All’economicismo dei marxisti ortodossi Socialisme ou Barbarie contrapponeva una visione diversa: se il capitalismo aveva effettivamente trionfato sul piano materiale, quello della produzione, i suoi risultati sono stati vanificati dall’aumento continuo dei bisogni e dalla crescente divisione del lavoro in mansioni alienanti.

La contraddizione, più che economica, era ormai culturale. Castoriadis metteva al centro della sua denuncia la divisione tra dominanti e dominati, che induceva nei lavoratori una profonda crisi di senso. Daniel Cohn-Bendit, leader del maggio francese, dichiarò di avere rubato tutte le sue idee da Socialisme ou Barbarie.

Addio al marxismo

Per superare la «crisi del significato della vita e delle motivazioni umane», bisognava secondo Castoriadis abbandonare il materialismo che caratterizza sia l’ideologia dominante che quella marxista.

Se a essere prioritaria era la dimensione immaginaria – la cosiddetta sovrastruttura – allora gli indicatori quantitativi di progresso che venivano presi in considerazione all’epoca non erano adeguati.

Emerge qui la terza anima del pensatore greco-francese, quella del critico dello sviluppo, anima coltivata per lungo tempo proprio nei corridoi del tempio dello sviluppo, ovvero l’Ocse. 

Per l’organizzazione internazionale Castoriadis coordina un importante rapporto che esce nel 1970, poco prima di licenziarsi, dal titolo The Growth of Output, 1960–1980: Retrospect, Prospect and Problems of Policy.

Qui, pur ricorrendo al grigio registro tipico di simili pubblicazioni, vengono presentate conclusioni sorprendenti per l’epoca e per il contesto: in primo luogo si constata che la crescita economica produce degli effetti secondari che non è in grado di risolvere, come l’inquinamento, l’ineguaglianza e la crescita incontrollata di aspirazioni che non possono essere soddisfatte;

in secondo luogo si insiste sulla necessità di abbandonare la crescita dell’output produttivo come solo indicatore di successo, per valutare invece l’efficacia delle politiche di sviluppo relativamente a obiettivi concreti come la riduzione della povertà e l’aumento generale del benessere.

In seguito alla pubblicazione del rapporto, dopo averne discusso in una riunione interministeriale, l’Ocse lancerà il suo primo programma di misurazione degli indicatori sociali di benessere.

Seguendo il filo di queste riflessioni, Castoriadis pubblica nel 1975 il suo capolavoro, L’istituzione immaginaria della società. Jürgen Habermas, entusiasta, lo ha definito il tentativo «più originale, più ambizioso e più meditato per pensare ancora una volta come prassi la mediazione liberante tra storia, società, natura esterna ed interna».

Ecologia e utopia

La parabola di Castoriadis, che culmina con la critica radicale al pensiero di Marx, precede quella di un’intera generazione, e non è sempre facile stabilire se si tratti di un superamento da sinistra o dal centro — si troveranno dei castoriadisiani tanto tra gli operaisti quanto tra i socialisti, ad aprire la strada dell’ultrasinistra e la “terza via” liberale.

Ma se è possibile dare una lettura liberale del pensiero castoriadisiano, si tratta di un liberalismo radicale, che mette in discussione il capitalismo stesso.

Per questo Castoriadis viene oggi considerato come un pioniere dell’ecologia politica e della decrescita. Dalla metà degli anni 1970 l’autore propone una critica articolata del mito dello sviluppo, «immaginario sociale» sul quale è fondata la nostra società.

Un mito nefasto perché non siamo in grado di controllarne gli enormi e spesso invisibili costi biologici, psicologici e sociali. Contrariamente ai futuri teorici della decrescita, Castoriadis non s’illude che sia semplice uscire da questa trappola, poiché nei paesi detti “sviluppati” la dipendenza dal benessere materiale è tale che un rallentamento dell’economia condurrebbe inevitabilmente a una «esplosione sociale violenta».

È l’intera organizzazione sociale e psichica dell’umanità che dovrebbe essere radicalmente trasformata: un cambiamento d’immaginario, appunto. 

Ora che queste questioni sono tornate al centro della scena, si capisce anche l’attualità del pensiero di Castoriadis. Perché oltre a proporre una diagnosi che tiene assieme economia, politica, cultura e psicologia ha anche il coraggio di proporre una pars construens.

Sta tutta in una parola che suona contemporaneamente banale e rivoluzionaria, e alla quale il filosofo non cessa di avvicinarsi con definizioni, genealogie e teorie, pure con un certo orgoglio legato alle sue origini greche — ed è la parola democrazia.

Una parola che all’alba del Ventunesimo secolo si trova in effetti confrontata a un’alternativa radicale: o proviamo finalmente a darle un senso, oppure tanto vale buttarla via.

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