Rinserrata nella sua fortezza, preda del sogno folle di “zero migrazioni”: così appare l’Europa che si risolleva dalla pandemia. L’ultimo atto è andato in scena pochi giorni fa, quando il parlamento danese ha emendato la sua legge sugli stranieri, decretando il trasferimento forzato dei richiedenti asilo in paesi terzi (forse il Ruanda, la Tunisia o l’Etiopia) per l’esame delle domande di protezione, senza garanzia di ammissione nel paese neanche in caso di esito positivo della procedura.

Ad aprile, Copenaghen aveva già creato sconcerto con l’annuncio del governo socialdemocratico di voler rimandare a casa i rifugiati siriani.

La decisione di esternalizzare gli obblighi relativi all’asilo e alla protezione internazionale segnala un approccio che Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, non esita a definire contrario «alla lettera e allo spirito della Convenzione sui rifugiati del 1951», di cui la Danimarca fu prima firmataria nel 1952.

Il problema non sembra però poter essere circoscritto alla particolare durezza delle politiche migratorie di un paese di cinque milioni e mezzo di abitanti. Sono di poche settimane fa le immagini dei respingimenti di massa di migranti e richiedenti asilo dall’enclave spagnola di Ceuta verso il Marocco, senza un’analisi caso per caso, senza accertamento della volontà di fare domanda d’asilo o di particolari vulnerabilità.

Non solo, ma i summit europei hanno apertamente eluso il tema, sollevato dall’Italia, della ricollocazione dei nuovi arrivati, mentre l’Ue insiste nella politica di esternalizzazione delle frontiere stringendo accordi con paesi terzi che non garantiscono il rispetto dei diritti umani.

Blocco navale

I governi di Francia e Germania sembrano temere più la vittoria elettorale dei “populisti” che la catastrofe umanitaria alle nostre porte. In Italia, esaurite le polemiche sulla gestione della pandemia, Giorgia Meloni torna a parlare di «blocco navale» contro i migranti. E l’opinione pubblica europea? Tiepida davanti al dramma delle morti alle frontiere, resta inerte anche di fronte alla criminalizzazione delle ong che prestano soccorso.

Sembriamo aver dimenticato che, fin dalla Dichiarazione Onu del 1948, quello di chiedere asilo è riconosciuto come un diritto umano. O forse siamo semplicemente indifferenti all’essere umano in quanto tale, che non possa vantare diritti d’appartenenza in quanto cittadino.

Hannah Arendt parlò di «fine dei diritti umani» quando masse di persone, tra le due guerre mondiali, si trovarono espulse dai propri paesi, e scoprirono che la «nudità astratta dell’essere uomini e nient’altro che uomini» non valeva nulla senza un titolo di appartenenza a uno stato-nazione.

Il diritto internazionale sull’asilo del Dopoguerra, a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951, è stato inteso a rimediare proprio a questo fallimento.

Se oggi, però, gli stati tornano a sancire l’impossibilità di un diritto al primo ingresso per l’esame della domanda di protezione, possiamo davvero consegnare al passato l’amara diagnosi che Arendt fece allora?

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