Le foto sono di Alessandra Fuccillo e Valerio Nicolosi 


La strada che da Velika Kladusa porta verso Bihac per buona parte del lungo percorso è fatta di curve e colline che accompagnano il fiume Korana, che in questo punto segna il confine naturale tra Bosnia e Croazia: da un lato Unione europea, dall’altra un paese rimasto in un limbo geopolitico dopo essere stata la periferia dell’impero Ottomano e poi nella Federazione Jugoslava.

Questa parte del confine è piena di ragazzi che dopo aver provato il “game”, come loro chiamano il tentativo di raggiungere Trieste, vengono respinti dalla polizia croata spesso proprio sulla sponda del fiume.

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«Ci hanno tenuti tre giorni in un garage senza bere e mangiare, abbiamo fame e ci fanno male le ferite per le botte che ci hanno dato» racconta Reza, che insieme ad altri dieci ragazzi afghani incontriamo sotto una pensilina sul ciglio della strada mentre mangia insieme ai suoi amici, anche loro vittime di violenza da parte delle autorità croate.

Dentro il game

I volti sono scavati, gli occhi spenti per la stanchezza e la fame. Tutti loro hanno provato il “game” almeno sette o otto volte, chi è più sfortunato anche molte volte di più.

«Ci proviamo sempre, ogni volta che passano i dolori delle botte che ci danno. Noi non vogliamo stare in Bosnia, vogliamo andare in Francia o in Germania», raccontano mentre ancora mangiano in cerchio quel poco che sono riusciti a comprare. Gli sguardi cambiano rapidamente, la fame viene colmata e gli zuccheri tornano in circolo e li rende più loquaci.

«Ogni volta è così: ci fermano, ci portano in una stanza molto grande, ci picchiano, ci levano telefoni e tutto quello che abbiamo e poi ci rilasciano sul confine e ci minacciano per attraversarlo e tornare indietro, ma noi qui non sappiamo dove andare», ci dice Reza, mentre lentamente si alza e insieme agli altri si preparano a riprendere il viaggio: li aspettano 21 chilometri a piedi fino a Bihac e ne hanno fatti almeno il doppio prima di fermarsi a mangiare.

Non sono soli, in un pomeriggio se ne incontrano diversi: alcuni sono i respinti, come Reza, gli altri invece stanno per provare il “game”, la differenza sta tutta nelle facce e nella stanchezza. «Hanno iniziato a picchiare anche le donne, lo fa una poliziotta di nome Leila. L’abbiamo vista che lo faceva pochi giorni fa, quando dopo di noi hanno fermato delle famiglie», dice un amico di Reza mentre riprendono il cammino.

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Leila, la poliziotta, tra i profughi che si trovano in Bosnia sembra essere famosa per i suoi episodi di violenza e lo sanno bene proprio le donne che viaggiano insieme ai mariti e ai figli: «Non era mai successo fino a pochi mesi fa, io ho provato il game più di venti volte, sono in Bosnia da più di un anno e mi hanno picchiata per la prima volta tre mesi fa», ci dice Safiqeh che vive a Bojna insieme alla sua famiglia e che muove male il collo per i dolori provocati dal teaser.

«Mi ha preso alle spalle e ho sentito un dolore tra la spalle e il collo, sono caduta e dopo tre giorni ancora mi muovo a fatica. Quando ero a terra ha usato il teaser anche sulla gamba, dopo mi ha preso a manganellate», aggiunge Safiqeh. Le chiediamo chi è stato e mi risponde secca: «Leila».

Il garage 

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Le donne che non hanno incontrato Leila hanno incontrato i cani lungo i sentieri e portano ancora i segni sul proprio corpo. Samia viene da un piccola cittadina vicino Kabul, da dove è partita quattro anni fa, e ci mostra i segni che i cani le hanno lasciato sul braccio e sul gomito.

«Non abbiamo avuto nemmeno il tempo di alzare le mani e dire che eravamo afghani e che volevamo chiedere asilo, ci hanno fatto mordere dai cani e ci hanno ammanettato, poi ci hanno portato nella stanza con la porta blu, dove ci hanno lasciato per due giorni senza cibo e senza acqua. Prima di poter andare in bagno ho dovuto aspettare ore», aggiunge Samia mentre parliamo davanti a quello che era uno scheletro di una casa di campagna e che ora è piena di tende dove lei e la sua famiglia si sono rifugiati.

La stanza di cui parla Samia è il garage della stazione di polizia di Korenica, una piccola cittadina croata di 1.700 abitanti vicino al Parco Nazionale dei laghi di Plitvice, dove migliaia di turisti ogni anno vanno a fare rafting o rilassarsi. Il passaggio di camper e il verde attorno tradisce il clima di violenza che si respira dentro la stazione di polizia locale, dove oltre alle automobili e ai furgoni con la scritta “Policija” c’è un gran via vai di furgoni anonimi, da dove scendono e salgono uomini in borghese che sembrano conoscere bene il commissariato visto che entrano e escono con grande familiarità.

In passato reportage e inchieste sono riuscite a ricostruire le violenze che vengono utilizzate qua dentro, alcune possono essere definite anche torture. Il luogo è anonimo e dai migranti veniva riconosciuto solo per una porta blu, con un po’ di fatica visibile anche dall’esterno.

Samia, Safiqeh e le donne venivano risparmiate dai pestaggi, anche se erano costrette anche loro a restare sul pavimento per giorni, senza andare in bagno e senza poter mangiare o bere.

A quanto pare questa certezza per loro non c’è più e questo si aggiunge alle tante altre violenze che subiscono lungo la Rotta Balcanica.

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