Uno dei ricorrenti problemi africani è l’esiguità del commercio interno nel continente (solo circa il 16 per cento del totale). La struttura degli scambi è ancora plasmata sul modello coloniale e postcoloniale: si muove sulla verticale sud-nord. Lo si nota anche nel trasporto delle persone: quasi tutte le linee aeree seguono la medesima direttrice e i collegamenti intra-africani sono scarsi e affidati a fragili compagnie locali, sovente poco raccomandabili.

Frontiere aperte

L’accordo entrato in funzione il 1° gennaio 2021 per creare la zona africana di libero scambio è il maggior tentativo fino a ora ideato per sciogliere tale nodo, aprendo le frontiere interne a tutti gli scambi possibili. Si tratta di un processo lungo e complesso che inizia con le ratifiche e deve sormontare la suscettibilità “sovranista” di molti stati africani, abituati da decenni a fare a meno dei vicini o a considerarli come mere piattaforme di contrabbando. Malgrado ciò la svolta c’è finalmente stata.

La pandemia – che si va seriamente aggravando dopo una prima ondata tutto sommato leggera – rende l’accordo cruciale ai fini della ripresa. Anche nel continente subsahariano la chiusura ermetica delle frontiere ha duramente colpito le filiere di approvvigionamento e azzerato quella parte transfrontaliera di commercio che concerne l’agricoltura e la transumanza, creando insicurezza alimentare. Se davvero i dazi saranno pressoché azzerati e le procedure burocratiche semplificate, ciò potrà aumentare la resilienza generale delle economie africane in un momento di grande fragilità.

D’altra parte l’accordo africano (Afcfta) è il più esteso fin dalla creazione del Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 1995. Perché abbia successo deve poter essere accompagnato dall’introduzione di una vera infrastruttura digitale. C’è poi da lanciare tutto il lavoro di armonizzazione delle regole. Si tratta di un impegno misconosciuto ma essenziale: per poter essere liberamente scambiate, le merci devono possedere caratteristiche comuni, come avviene nell’Unione europea. L’organizzazione africana per la standardizzazione (Arso) ha iniziato a farlo per il comparto farmaceutico e dei manufatti medicali, prodotti in Africa o importati. Occorre urgentemente estenderlo a tutti i settori merceologici.

L’accordo servirà a diversificare le economie africane diminuendo la dipendenza estrattivo-concessionale ancora dominante in molti stati. L’obiettivo di molti paesi sarà ridurre l’esposizione alle variazioni dei prezzi delle materie prime da esportazione (petrolio, fosfati, rame o terre rare ma anche cacao, caucciù e così via), stabiliti altrove a partire dagli equilibri del mercato mondiale dei prodotti di base.

L’altra caratteristica dell’Afcfta sarà quella di limitare l’impatto della nuova crisi del debito estero che sta attanagliando molti paesi subsahariani. Già l’estate scorsa lo Zambia ha dichiarato default tecnico e ora il Ciad ha chiesto la ristrutturazione del debito a causa della crisi da Covid. Un simile passo è previsto per Kenya ed Etiopia. Considerando le interconnessioni economiche che legano l’Africa al resto del mondo (non esistenti al tempo della prima crisi del debito negli anni Ottanta), una raffica di fallimenti avrebbe conseguenze negative su un’economia globale già sotto stress. Per tali ragioni il G20 si è affrettato a congelare il debito africano e, anche se non ha avuto il coraggio di cancellarlo, a proporre un framework per la rinegoziazione.

Il rapporto con la Cina

In molti accusano la Cina di essere all’origine di tale nuova crisi per aver prestato senza criterio a paesi dal bilancio notoriamente debolissimo. In questi anni di crescita continua (va rammentato che sono circa vent’anni che l’Africa cresce a una media annua tra il 4 e il 6 per cento), diversi stati hanno iniziato a emettere buoni del tesoro finanziandosi sul mercato. Una nuova crisi del debito metterebbe fine a tale innovazione finanziaria che si vuole mantenere. Nessuno desidera che agli africani sia vietato l’accesso a fonti private di finanziamento, messe a rischio dalla mancanza di regolarità nei rimborsi.

In tale quadro si aprono per le economie dei paesi sviluppati molte opportunità.

Esiste la possibilità di operare in joint ventures tra imprese e di creare programmi di finanziamento pubblico-privati. Ciò facilita soprattutto gli investitori dei paesi europei abituati al contesto africano e geograficamente più vicini. I programmi dell’Unione europea mirano a tale ipotesi: fare sviluppo pubblico in alleanza con il settore privato. Si tratta di un’occasione per l’Italia, provvista di Pmi performanti ma sottocapitalizzate e poco liquide. Gli strumenti messi a disposizione dall’Ue (ad esempio l’External investment plan) ma anche da Sace e Cdp, possono rappresentare l’occasione per lanciare un vero e proprio programma italiano di investimenti produttivi con l’Africa, privilegiando tra l’altro settori come l’agro-business, la logistica o le energie rinnovabili. Per far questo occorre uscire da una modalità esclusivamente export-oriented al fine di creare una piattaforma italiana che si interfacci coi programmi, le opportunità e le garanzie offerte dalle istituzioni pubbliche e dal mercato privato. In parole povere: imitare la Cina ma su base paritaria.

Sulla falsariga di ciò che Xi Jinping ha recentemente dichiarato a Davos, Pechino sostiene pubblicamente l’Afcfta sottolineando che il libero commercio e il multilateralismo sono le chiavi di un sistema globale dinamico. Il ministro degli Esteri cinese ha aggiunto che il suo paese assisterà il segretariato dell’accordo Afcfta, offrendo formazione, finanziamenti e rafforzamento delle capacità. Le conseguenze dell’accordo potrebbero coinvolgere la Cina sia nel commercio di merci che nella costruzione delle infrastrutture per facilitarlo. Quest’ultimo aspetto è necessario al fine di ridurre le barriere non tariffarie. Vanno costruiti corridoi di trasporto efficienti come, ad esempio, è stato fatto con le ferrovie Addis-Gibuti o Mombasa-Nairobi.

Un medesimo sforzo va messo in campo per le telecomunicazioni e l’energia. Con la costruzione della grande diga della rinascita l’Etiopia si è candidata a diventare fornitore di energia per tutta la regione dell’Africa orientale e oltre. Di conseguenza occorrerà costruire gli elettrodotti necessari. I cinesi d’altra parte hanno interesse a realizzare collegamenti per la loro Belt and road initiative (Bri), che giunge via mare proprio in Africa orientale, mirando a estendersi a tutto il continente.

Qualcuno sostiene che l’Afcfta potrebbe essere motivo di tensioni tra africani e cinesi.

L’accordo punta a sviluppare un settore produttivo endogeno e questo contraddice il ruolo cinese di “fabbrica del mondo”. L’Africa è attualmente inondata di prodotti asiatici, anche per gli oggetti comuni della vita quotidiana.

Ci vorrà tempo, ma se il continente giungesse a sviluppare una propria industria interna ciò andrebbe a discapito delle esportazioni dall’Asia. Già ora per le produzioni africane esistenti si sta creando una nuova fase di opportunità: il cemento keniano, ad esempio, senza dazi e tariffe tornerebbe a essere competitivo in Tanzania o Uganda dove è stato scalzato anni fa da quello cinese, più economico. In tal modo l’accordo potrà rafforzare la nascente industria manifatturiera continentale. Ovviamente ciò favorisce anche le imprese straniere che invece di esportare producono direttamente in Africa: l’Afcfta le renderà libere di vendere in tutti gli stati senza restrizioni.

La creazione di un grande mercato unico africano di 1,2 miliardi di potenziali consumatori, vale oggi circa 3.400 miliardi di Pil e, a dire degli esperti, potrebbe generarne altri 500 in dieci anni.

In totale 54 paesi hanno firmato (manca solo l’Eritrea) e oltre 34 hanno ratificato l’accordo. In quindici anni tariffe e dazi dovranno scomparire. Se l’Africa è ancora lontana dalla moneta unica continentale, il grande mercato è davvero più vicino.

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