Secondo molti, se non fosse nato in Germania sarebbe potuto diventare il presidente degli Stati Uniti, ma il giovane Heinz (Henry) Kissinger giunse negli Usa dalla Baviera che era già un quindicenne ebreo in fuga dall'Europa alla vigilia della Seconda guerra mondiale e non è mai riuscito a (o non ha mai voluto) liberarsi del forte accento tedesco di origine. Qualcosa di “altro” dall’America, di più complesso, ma profondamente al suo servizio.

Così è rimasto un sofisticato intellettuale europeo prestato alla nuova potenza egemone, gli Stati Uniti, qualcosa di simile a un intellettuale dell’antica Grecia al servizio del nascente impero di Roma. Non a caso la sua tesi sul Congresso di Vienna e sul balance of powers è stato il segno distintivo di tutta la sua politica estera dove l’Europa di Metternich è stata la storia dalla quale Washington doveva trarre suggerimenti su come agire nell’arena internazionale: cercare realisticamente e cinicamente un equilibrio tra le potenze in campo parlando e negoziando con tutti, soprattutto i nemici più acerrimi. Così si è spento nella sua casa in Connecticut l'ex segretario di Stato americano Henry Kissinger che lo scorso maggio aveva compiuto 100 anni.

Bismarck o Metternich?

Per il politologo Robert Kaplan, Kissinger è stato il più grande statista bismarckiano del Ventesimo secolo; in realtà è stato un estimatore di dell’impero austriaco di Metternich, del Congresso di Vienna del 1815 dopo la parentesi rivoluzionaria di Napoleone Bonaparte, più che del cancelliere prussiano artefice della unificazione tedesca sotto il dominio della periferica potenza militare della Prussia. Il conservatore Kissinger amava le trattative diplomatiche tra potenze, più che le azioni di forza destabilizzanti dell’ordine costituito.

Da immigrato in fuga dal Nazismo riuscì ad andare all’Università di Harvard e poi a Washington, al servizio di due presidenti americani repubblicani: Richard Nixon e, dopo il Watergate (da cui uscì indenne), Gerald Ford. Kissinger plasmò sia la prima distensione verso l'Urss al tempo della “guerra fredda” sia il disgelo con la politica del Ping Pong con la Cina di Mao Zedong, culminato nel viaggio di Nixon a Pechino. Fu il regista degli accordi di Parigi con il Vietnam per il cessate il fuoco nella penisola indocinese e il ritiro americano dopo quasi 60 mila morti Usa, una decisione che gli valse un controverso premio Nobel per la Pace. Kissinger è stato una sorta di presidente ombra, anche se la Casa Bianca restò un sogno impossibile per il fatto di non essere nato negli Usa.

Pronto a scelte ciniche e realistiche, come il bombardamento e l'invasione della Cambogia e il sostegno al colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile del 1973 che defenestrò Salvador Allende, è stato capace anche di scelte di apertura notevoli per un conservatore della sua stazza.

L’apertura alla Cina

La sua opera più rilevante e significativa durante la Guerra fredda è stata l’apertura alla Cina comunista di Mao Zedong in funzione antisovietica. L’ingresso cinese nella Organizzazione mondiale del commercio (Wto) l’11 dicembre del 2001 è figlia di quel primo disgelo politico operato da Kissinger. La Cina, entrando nella Wto, è diventata la “fabbrica del mondo” e ha fatto uscire con la globalizzazione dalla povertà milioni di persone. Ma nello stesso tempo oggi Pechino, quando rivendica il diritto di invadere la provincia ribelle Taiwan sembra non capire che sta cancellando gli effetti di quel patto che Mao Zeodong e Richard Nixon seppero siglare del 1972 per normalizzare le relazioni tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese. Fino alla fine Kissinger ha cercato di far capire, nei suoi frequenti viaggi in Cina, alla dirigenza guidata del presidente Xi Jinping, che l’attacco a Taiwan sarebbe costato la fine di quell’intesa che ha permesso alla Cina di diventare la seconda potenza economica del pianeta. La rottura dell’equilibrio sarebbe stato un errore fatale e dalle conseguenze imprevedibili. «I rapporti con Pechino sono – ha scritto Ben Smith su Semafor - la sua eredità più significativa della sua immensa attività diplomatica e di studioso». «Le relazioni tra Cina e Stati Uniti non devono – e non dovrebbero – diventare un gioco a somma zero», ha scritto Kissinger nel libro del 2011 sulla Cina. Kissinger era considerato in Cina come l’unico americano ad aver lavorato con tutti i leader, da Mao a Xi.

Famosa è rimasta la querelle con Oriana Fallaci in seguito a una sua intervista: la Fallaci raccontò che Kissinger ammise che averla ricevuta era stata «la cosa più stupida della sua vita» e che l'accusò di aver «storpiato le sue risposte, distorto il suo pensiero, ricamato sulle sue parole», accusa respinta dalla giornalista e scrittrice. Ancora oggi la trascrizione dell’intervista di Fallaci a Kissinger viene studiata nelle scuole di giornalismo americano.

In occasione del suo centesimo compleanno, sul Washington Post il figlio David, interrogandosi sulla vitalità di un uomo che ha seppellito ammiratori e detrattori a dispetto di una dieta a base di bratwurst e Wiener schnitzel, individuò la ricetta nell'inesauribile curiosità paterna per le sfide cruciali del mondo. In realtà nella capacità hegeliana di sistematizzare il reale per controllarlo al meglio. Quello che oggi possiamo dire è che Kissinger non ha un erede nel suo ruolo singolare di mediatore tra le due superpotenze e più in generale di saggio consigliere per ritrovare l’equilibrio perduto nel corso delle varie crisi mondiali. Nei necrologi, tributi e condanne preparati da tempo si intravede il vuoto che lascia questo gigante della diplomazia mondiale.

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