Può uno smartphone finire al centro della contesa che sta ridisegnando gli equilibri geopolitici del pianeta? Sì, se il device in questione è il Mate 60 Pro di Huawei, che monta il Kirin 9000s, un nuovo, potente processore fabbricato in Cina in circostanze e con modalità avvolte dal mistero. Colpita dall’embargo hi-tech statunitense, la seconda economia del pianeta, in teoria, non ha gli strumenti per sfornare un microchip a 7 nanometri come il Kirin 9000s, che sarebbe (il condizionale è d’obbligo) molto più veloce rispetto al precedente stato dell’arte, i chip a 14 nanometri della shanghaiese Semiconductor Manufacturing International Corp (Smic).

Fatto sta che da quando, qualche giorno fa, è stato presentato il Mate 60 Pro, davanti ai negozi Huawei si sono formate code che finora si erano viste solo in occasione dell’uscita degli ultimi modelli di quell’iPhone che ha saputo conquistare il 17,2 per cento del mercato cinese.

Ora però gli stessi giovani che, per l’abbigliamento, ai brand internazionali preferiscono Li Ning e Anta (tra i marchi locali più popolari) sono disposti ad aspettare ore e sborsare 6999 yuan (891 euro) per portarsi a casa quello che nelle chat patriottiche viene esaltato come uno schiaffo all’embargo hi-tech Usa, un simbolo della resilienza nazionale di fronte al tentativo di rallentare l’ascesa della Cina.

Mentre alcuni ministeri stanno vietando ai loro dipendenti l’utilizzo nell’orario di lavoro – per motivi di “sicurezza nazionale” – dei telefoni di Apple, un avvertimento clamoroso nel paese che ospita due città-fabbrica degli iPhone, a Shenzhen e Zhengzhou, e nel quale la mela ha costruito parte della sua fortuna. Ma se la loro rincorsa tecnologica riuscirà ad accelerare, i cinesi potrebbero essere tentati di ripagare gli Usa con la stessa moneta, dopo che l’amministrazione Biden, già dal 2021, ha vietato gli apparecchi di Huawei e ZTE, ufficialmente per «proteggere il popolo americano dalle minacce alla sicurezza nazionale che coinvolgono le telecomunicazioni».

Intanto la segretaria al commercio Usa, Gina Raimondo, nei giorni scorsi in visita a Pechino, è diventata involontaria testimonial del telefono cinese d’alta gamma, dal quale è stata immortalata in scatti diventati virali online, uno spot d’eccezione per un device del quale la compagnia di Shenzhen punta a vendere oltre 10 milioni di esemplari.

Cellulare-patriota

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L’entusiasmo suscitato dal nuovo processore ha fatto passare in secondo piano i più recenti dati economici, influenzati dalla debolezza della domanda estera e interna e dalla crisi del mercato immobiliare cinese innescata dal crollo del colosso Evergrande.

Il mese scorso le esportazioni sono scese dell’8,8 per cento su base annua. Anche le importazioni si sono contratte, del 7,3 per cento rispetto allo stesso mese del 2022. Le statistiche pubblicate giovedì scorso indicano che l’economia cinese potrebbe mancare per la seconda volta consecutiva l’obiettivo di crescita, che per quest’anno il partito comunista ha fissato a circa il 5 per cento.

Secondo la tv di stato CCTV, oltre 10mila componenti del nuovo cellulare dell’azienda fondata da Ren Zhengfei – inserita da Donald Trump nella lista nera Usa già dal 2019, perché accusata di legami con l’Esercito popolare di liberazione (Epl) – sono “made in China”. A destare stupore è soprattutto il processore, descritto come una pietra miliare, per quanto riguarda sia la progettazione sia la manifattura.

I microchip sono al centro dello scontro hi-tech tra Cina e Usa per la loro capacità d’influenzare lo sviluppo dell’industria e della difesa moderne, che si avvalgono entrambe dell’intelligenza artificiale e che per questo richiedono “cervelli” sempre più potenti e miniaturizzati. 

Secondo Tilly Zhang, il Kirin 9000s «è ancora qualche anno indietro rispetto allo stato dell’arte attuale: quella di Huawei è una vittoria simbolica, che non cambia fondamentalmente il percorso della tecnologia cinese sotto sanzioni Usa». Tuttavia, sostiene il ricercatore di Gavekal Dragonomics in una nota pubblicata questa settimana, il nuovo telefono è «imbarazzante per il dipartimento del commercio Usa», poiché il chip al suo interno supera le soglie tecnologiche che Washington ha inserito nelle sanzioni contro la Cina sui semiconduttori.

La reazione di Washington

Imbarazzante soprattutto perché – se le sue prestazioni si confermeranno all’altezza delle aspettative, come ha titolato Bloomberg, Il chip di Huawei mostra i limiti delle sanzioni Usa. A quel punto le grandi corporation Usa del settore - Qualcomm e Nvidia anzitutto -, che non hanno mai digerito le limitazioni governative all’accesso al mercato cinese, ampliate dal presidente Joe Biden, alzerebbero la voce nel tentativo di imporre se non la fine, quanto meno una revisione di misure rivelatesi inefficaci.

Al momento il vento soffia in direzione opposta, quella di un’escalation nella guerra hi-tech. A Washington si è subito allertata la Commissione sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese, istituita nel gennaio scorso presso la Camera dei rappresentanti.

Il suo presidente, il repubblicano Mike Gallagher, ha chiesto al dipartimento del commercio di bloccare l’esportazione di qualsiasi componente tecnologica Usa verso Huawei o Smic. «Questo chip probabilmente non potrebbe essere prodotto senza la tecnologia statunitense e quindi Smic potrebbe aver violato la Foreign Direct Product Rule del Dipartimento del Commercio», ha affermato Gallagher in una nota. Le cose invece potrebbero essere andate in maniera ben diversa.

Progresso o trucco?

Finora sia la compagnia di Shenzhen fondata dall’ex ingegnere dell’Epl, sia il colosso shanghaiese dei semiconduttori non hanno fornito alcuna delucidazione sul Kirin 9000s. Tanto che non è chiaro nemmeno se l’avanzamento tecnologico sia da attribuire a Huawei o a Smic: gli esperti ipotizzano anche una collaborazione, segretissima, tra le due compagnie.

Ma come è stato possibile, da un punto di vista tecnico-industriale, sfornare il Kirin 9000s nonostante, fin dal 2019, gli Stati Uniti abbiano impedito alla Cina l’accesso ai macchinari a raggi ultravioletti più avanzati (che utilizzano la litografia ultravioletta estrema, Euv), prodotti soltanto dalla olandese Asml, e malgrado, a causa delle severe restrizioni varate da Washington contro Huawei, quest’ultima non può ottenere circuiti integrati avanzati dai maggiori produttori internazionali?

C’è la possibilità che il Kirin 9000s sia in realtà un “vecchio” processore all’avanguardia, del quale Huawei aveva fatto scorte prima di essere investita dalle sanzioni Usa.

Ma le prime ricerche degli esperti di tecnologia mobile suggeriscono che è molto più probabile che Smic, anch’essa soggetta alle sanzioni commerciali statunitensi, abbia fatto di necessità virtù, “spremendo” le apparecchiature esistenti per produrre il chip 5G per Huawei.

Quella di Smic è attualmente la quinta fonderia del mondo, che insegue le leader del settore Taiwan Semiconductor Manufacturing Co (Tsmc), la sudcoreana Samsung, l’altra taiwanese United Microelectronics Corp e la statunitense GlobalFoundries. L’ipotesi più accreditata è che i tecnici cinesi siano riusciti a modificare i macchinari con la tecnologia precedente, la litografia a ultravioletti profonda (Duv). Si tratterebbe però di un espediente che aumenterebbe i costi di produzione e, nello stesso tempo, ridurrebbe la resa effettiva del microchip.

Poco importa per una compagnia come Huawei, i cui business sono stati feriti gravemente dalle sanzioni Usa, e che è pronta a rilanciarsi con cinque nuovi impianti in Cina, che saranno messi su grazie a finanziamenti statali per 30 miliardi di dollari. Mentre il governo di Pechino potrebbe rivendicare il colpo messo a segno dalla sua strategia di “innovazione autoctona”, dimostrando che i cinesi sono riusciti a produrre da soli un microchip a 7 nanometri, proprio mentre sta per essere lanciato un fondo di investimento sostenuto dallo stato che punta a raccogliere circa 40 miliardi di dollari per il suo settore dei chip.

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