Mentre le nazioni si dividono e il quadro multilaterale pare non riuscire a contenere le crisi, la simpatia tra le religioni aumenta e si consolida. Si tratta di una novità unica della storia.

La premonizione dello shock delle civiltà basata sul dato cultural-religioso non si è avverata. Certamente ci sono tanti problemi come l’estremismo dei buddisti birmani o quello degli indù contro cristiani e musulmani, le sette cristiane neo-evangelicali tendenzialmente suprematiste, l’annoso tema dei salafiti islamici (circa l’1,5 per cento dei musulmani), da cui nasce la propaggine jihadista, i talebani reazionari e così via.

Fede politca, non religiosa

Ma come si intuisce già da questa lista succinta, sono tutti casi di manipolazioni politiche delle religioni. Anche in situazioni molto tese, i leader religiosi stanno maturando sempre più una cultura del dialogo e dell’incontro e ciò avviene anche in ambienti tradizionalmente chiusi alla comunicazione con le altre fedi, come in Medio Oriente.

L’incontro di papa Francesco con l’ayatollah al Sistani è un esempio di tale orientamento, così come la visita del grande imam al Tayyeb capo di al Azhar, al Bataclan due anni dopo l’eccidio, accompagnato da Sant’Egidio. Non sono mutati i discorsi o la teologia (anche se va ricordato il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi): ciò che è cambiato è il clima tra leader religiosi.

Con il tempo il dialogo interreligioso ha portato i suoi frutti ed ora se ne vedono i risultati: i capi religiosi in generale si avvicinano, parlano e si incontrano, molto più dei leader politici. Questi ultimi spesso cercano di approfittare del fatto religioso usandolo come cemento nazionalistico o come fattore di omologazione.

Tale strumentalizzazione funziona sempre meno. I radicali islamici (Isis, ma anche certi stati in ambito islamico) non sono riusciti a mettere il miliardo e mezzo di musulmani contro tutti gli altri abitanti del pianeta. Allo stesso modo le destre reazionarie, razziste e islamofobe occidentali non sono riuscite a scatenare l’odio generalizzato e il ripudio dell’Islam. I tentativi dei nazionalisti indù, malgrado la loro violenza, non riescono a spezzare il melting pot religioso indiano.

Anche in Pakistan l’orrida legge della blasfemia, leva per eliminare le minoranze cristiane, non fa presa sulla maggioranza della popolazione. La radicalizzazione nazional-buddista birmana o di altri paesi non si espande. Nella stragrande parte dei casi la guerra alle minoranze non è condotta da leader religiosi, ma da politici.

Anche laddove si installa il jihadismo, gli imam locali cercano sempre di resistere al neo-prodotto religioso estraneo alla tradizione. Esiste sempre il pericolo di riemersione dell’antisemitismo sostenuto da politici razzisti o da gruppi di estrema destra, ma la convivenza tiene. Lo stesso conflitto israelo-palestinese che avvelena le relazioni tra islam e ebraismo, non spezza la coesistenza tra ebrei e musulmani negli altri continenti.

La chiave del dialogo

Cosa sta accadendo dunque? Esiste una silenziosa ma forte resistenza che salda i leader religiosi di fedi diverse, anche quelli di base. Tale resilienza si fa rete globale con innumerevoli incontri e dialoghi. I decenni di dialogo interreligioso hanno fatto scoprire l’altro, creato legami, vincoli di amicizia. Non esiste città in Europa dove le tre fedi abramitiche non si scambino gli auguri con visite fraterne durante le rispettive feste.

Sul piano della solidarietà e dell’aiuto ai poveri prolificano iniziative comuni ed emulazioni. Anche in certi paesi arabi avviene lo stesso, così come in altri continenti. Tali fatti hanno cambiato le mentalità. L’ispirazione è stata concentrarsi sulla vita vera senza cadere nelle strettoie teologiche.

I molto frequentati annual meeting dei leader religiosi mondiali organizzati da Sant’Egidio hanno come temi le sfide della pace, quadranti di crisi, ambiente, pena di morte, povertà, educazione, diseguaglianze, terza età e così via. Tale dialogo della vita ha dato forza alle religioni mediante la costruzione sommessa ma reale di un discorso comune sul mondo, sulla pace e sul futuro. E’ ciò che il teologo catalano Armand Puig chiama la “pentecoste laica”: tante lingue e fedi diverse ma un unico linguaggio di riconciliazione. Per questo oggi assistiamo al paradosso che la politica degli Stati è più divisa delle religioni, malgrado i loro limiti. Resta molto da fare perché le religioni resistano alla tentazione di lasciarsi utilizzare per altri scopi.

Il fatto religioso è legato all’identità e alla storia di un popolo e di una nazione. Nonostante ciò mantiene sempre al fondo del proprio messaggio uno spirito universalistico che rappresenta lo strumento attraverso il quale si riesce a dialogare con le altre fedi. Incontri interreligiosi sono organizzati da anni nei paesi del Golfo, nel Maghreb, in Asia, in America Latina oltre che negli Usa e in Europa. Esistono organizzazioni nate a tale scopo.

Il punto centrale è la pace, oggi molto minacciata. Per quanto riguarda la chiesa cattolica va detto che i papi del Novecento hanno maturato una vera e propria avversione per la guerra, considerandola – fin dalla Prima guerra mondiale – una specie di guerra civile tra cattolici o cristiani, quindi insopportabile per la chiesa. Il sogno di Giovanni Paolo II era quello delle transizioni pacifiche (che riuscì ad accompagnare in Cile, Filippine ecc.).

“Non c’è giustizia senza perdono” diceva il papa: cioè non si può fare giustizia in un clima d’odio. Ciò non significava mettersi contro la fine dell’impunità: si tratta piuttosto della via cristiana alle mediazioni, suscitando una cultura della riconciliazione e non della vendetta. È noto come molti accordi di pace falliscano perché si dimentica di costruire la vera riconciliazione. Dal canto suo il papa lega la pace alla cura dell’ambiente e alla lotta alla diseguaglianza. Giustizia diviene così cambiamento del paradigma sociale. In altre parole: non esiste guerra santa, solo la pace è santa.

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