Khomeini, il leader della rivoluzione teocratica del 1979, definiva gli Stati Uniti il “Grande Satana”. Quarantaquattro anni dopo gli assalti all’ambasciata americana, i tentativi falliti di liberazione degli ostaggi, le tensioni politiche, le sanzioni economiche e i tentativi di riavvicinamento, qualcosa si muove.

Soprattutto dopo il clamoroso accordo siglato tre mesi or sono tra Iran e Arabia saudita con la mediazione della Cina del presidente Xi Jinping, l’America di Joe Biden torna frettolosamente in medio oriente, e precisamente in Oman, per cercare di recuperare il terreno perduto in diplomazia e riallacciare i legami con il regime degli ayatollah di Teheran.

Una mossa forse fuori tempo massimo, resasi necessaria perché in politica estera non esiste il vuoto e quando una potenza egemone lascia un’area senza la sua influenza militare e politica arriva subito un nuovo contendente a riempire il posto lasciato libero.

Non a caso la testata al Monitor scrive che un accordo da 10 miliardi di dollari ha coronato la decima conferenza d’affari arabo-cinese che si è conclusa lunedì nella capitale saudita Riad, dove sono stati raggiunti oltre 30 accordi in un meeting che ha ospitato quasi 3.500 rappresentanti di 20 paesi.

Questo il quadro inquietante per gli Usa, dove la Casa Bianca ha cercato di recuperare il terreno perduto senza arrivare a un Trattato che non verrebbe mai approvato dai Repubblicani.

Non si tratta ovviamente di una riedizione dell’accordo sul nucleare chiamato Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action, quello firmato nel 2015 dall’ex presidente americano Barak Obama (anche perché non sarebbe politicamente fattibile, specialmente per il rischio di facilitare con questa svolta un nuovo ritorno di Trump alla Casa Bianca); ma un accordo limitato per uno scambio di prigionieri, soglie massime sulla produzione di uranio arricchito con possibilità di verifica da parte di agenzie dell’Onu come l’Aiea di Vienna e uno sblocco dei fondi iraniani congelati dalle sanzioni Usa in Iraq e altrove.

Il tutto con il tacito assenso di Israele, che non ha mai negato di essere pronto a tutto pur di evitare che l’Iran acquisisca l’arma nucleare. Ma è soprattutto un ritorno della diplomazia americana nell’area con l’apertura di un canale diplomatico con Teheran alla guida del coordinatore della Casa Bianca per il medio oriente, Brett McGurk, dopo la devastante scelta di Trump di rompere l’accordo siglato da Obama e aumentare il livello delle sanzioni economiche.

Una decisione che ha arroccato il regime teocratico iraniano sulle posizioni più estreme portate avanti dai pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, e portato economicamente Teheran nelle braccia della Cina e della Russia.

Cosa si muove dietro le quinte

I primi a parlare di queste caute aperture sono stati il Times of Israel, il Wall Street Journal e il New York Times. Secondo quest’ultimo «l’amministrazione Biden ha negoziato silenziosamente con l’Iran per limitare il suo programma nucleare e liberare gli americani prigionieri. La trattativa è parte di un più ampio sforzo degli Stati Uniti per allentare le tensioni e ridurre il rischio di uno scontro militare con il paese islamico». 

«L’obiettivo degli Stati Uniti – prosegue sempre il Times – è raggiungere un accordo informale e non scritto, che alcuni funzionari iraniani chiamano “cessate il fuoco politico momentaneo”».

Tenderebbe a prevenire un’escalation in una relazione difficile che è diventata ancora più tesa mentre l'Iran ha prodotto con le sue centrifughe scorta di uranio altamente arricchito al 60 per cento,  e fornisce alla Russia droni da utilizzare in Ucraina e reprime brutalmente le proteste politiche interne».

«L’Iran – scrive sempre il Nyt – accetterebbe di non arricchire l'uranio oltre il suo attuale livello di produzione del 60 per cento di purezza (per la bomba atomica bisogna arrivare al 90 per cento). Fermerebbe anche gli attacchi contro gli americani in Siria e Iraq, amplierebbe la sua cooperazione con gli ispettori nucleari internazionali e si asterrebbe dal vendere missili balistici alla Russia, hanno detto funzionari iraniani».

Ma cosa si aspetta in cambio il regime degli ayatollah? L’Iran si aspetterebbe che gli Stati Uniti evitino di inasprire le sanzioni economiche che stavano già soffocando la sua economia, sebbene il Fondo monetario internazionale stimi una crescita del Pil del 2 per cento per il 2023; di non sequestrare petroliere straniere cariche di petrolio, come è avvenuto di recente; e di non chiedere nuove risoluzioni punitive alle Nazioni Unite o all'Agenzia internazionale per l'energia atomica per la sua attività nucleare.

La posizione di Israele

Secondo il Times of Israel il premier dello stato ebraico Netanyahu ne avrebbe discusso con alcuni deputati dicendo che potrebbe essere favorevole a questo mini-accordo.

Inoltre una fonte ufficiale israeliana riportata dal quotidiano Haeretz avrebbe detto che «gli Usa aggiornano costantemente Israele sull'andamento dei colloqui indiretti in Oman con l'Iran sul nucleare di Teheran».

Tuttavia, Israele non ha ancora una «posizione definitiva» sui colloqui stessi smentendo in ogni caso che stia operando per boicottarli con il rilascio di informazioni sensibili.

Il punto è che i religiosi al potere e la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, sono ormai consapevoli che le loro fortune politiche dipendono dall'affrontare le proteste sociali non solo con la forza della repressione, ma anche con qualche apertura politica all’occidente che riduca la pressione sul paese.

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