Il porto del Pireo è un lungo, grigio susseguirsi di banchine in cui i traghetti per le isole greche dalla vernice un po’ scrostata si alternano alle più scintillanti navi da crociera e ai grandi cargo con container colmi di merci, circondanti da alte gru per le operazioni di carico e scarico. Alla grandezza fisica dello scalo greco corrispondono entrate altrettanto ingenti in termini economici. Il Pireo è al 28esimo posto nella classifica mondiale dei porti, è tra i più attivi in Europa per traffico container ed è il più importante scalo nel Mediterraneo grazie alla vicinanza allo stretto di Suez.

A trarre vantaggio dal successo economico dello scalo greco, però, è prima di tutto la Cina. Il porto è per il 67 per cento in mano alla Cosco, compagnia di stato cinese attiva nel Pireo fin dal 2009, anno in cui è riuscita ad aggiudicarsi la gestione del traffico container sui moli II e III per poi avviare un’operazione di acquisto progressivo delle quote dell’Autorità portuale del Pireo (Ppa).

Nel 2016 la Cosco ha ottenuto in gestione il 51 per cento della Ppa fino al 2052, riuscendo ad acquisire un ulteriore 16 per cento del porto nel 2021. Il tutto con il sostegno dei governi di sinistra prima e di destra dopo, che hanno continuato a presentare gli investimenti cinesi come una storia di successo.

Meno diritti

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La realtà però è ben diversa. A pagare il prezzo della crescita del Pireo sono stati gli operatori del porto, che hanno visto un peggioramento delle condizioni di lavoro e un progressivo smantellamento dei loro diritti. «Senza più un contratto nazionale e tramite il subappalto a compagnie esterne lo stipendio di un lavoratore è sceso del 40 per cento, i turni sono diventati di 12 ore consecutive e i contributi per la pensione sono stati ridotti», racconta Markos Bekris, presidente del sindacato Enedep.

L’associazione, nata nel 2014, è riuscita a strappare alla Cosco un contratto collettivo nel 2022 dopo sei mesi consecutivi di scioperi e manifestazioni. «Abbiamo anche avuto dei miglioramenti sul fronte pensionistico, sono state ripristinate le pause e ogni gruppo conta adesso cinque persone e non più solo quattro. Inoltre abbiamo riavuto l’ambulanza sulle banchine ed è stata abbassata l’età pensionistica, visto che il nostro è un lavoro usurante».

Tra una sigaretta e l’altra, Bekris sottolinea la mancanza di tutele da parte dei governi succedutisi dal 2009 ad oggi, maggiormente interessati a mettere a tacere le voci critiche che non a proteggere i diritti dei lavoratori. «Sotto Syriza è diventato più difficile scioperare in maniera legale, ma con Nuova Democrazia la situazione è peggiorata ulteriormente. I vari governi hanno fatto di tutto per bloccare gli scioperi e nel corso degli anni hanno trascinato molti di noi in tribunale. Nonostante ciò siamo riusciti ad ottenere da Cosco quelle tutele che avremmo già dovuto avere ma che non ci venivano più garantite».

Proprio la mancanza di garanzie da parte dell’azienda cinese e di sostegno da parte del governo e delle organizzazioni già esistenti ha portato alla nascita dell’Enedep, che rivendica anche un ulteriore successo sul piano comunicativo. «Prima chiunque pensava che lavorare per la Cosco fosse una fortuna, soprattutto i residenti della zona», ci tiene a precisare Bekris.

«Con i nostri scioperi invece abbiamo dimostrato che la privatizzazione del porto non è la benedizione che tutti pensavano e adesso anche all’estero sono consapevoli delle conseguenze di investimenti come quelli del Pireo». Il sindacato ha potuto contare sulla solidarietà dei lavoratori di altri porti nel mondo, Italia compresa, ed è passato da meno di duecento iscritti a più di mille dal 2014 ad oggi, riuscendo a contrastare lo strapotere della compagnia cinese. 

L’impatto ambientale

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L’interesse di Cosco però non si limita al solo traffico di merci nel Pireo. Quando ha acquistato un ulteriore 16 per cento di quote dell’Autorità portuale, la compagnia cinese si è impegnata a realizzare undici progetti dal valore di 325 milioni di dollari che vanno ben al di là del porto.

L’accordo prevede l’ampliamento della zona passeggeri, la costruzione di un nuovo terminal per crociere, di quattro nuovi complessi alberghieri e di un centro commerciale di otto piani con l’obiettivo finale di incrementare anche il traffico delle navi di lusso per lo scalo greco. Un progetto che dovrebbe interessare non solo il Pireo, ma anche le zone vicine come il comune di Keratsini, dove le ultime propaggini del porto commerciale lasciano spazio agli attracchi per le imbarcazioni dei pescatori locali.

Al momento però il cantiere è fermo. I lavori, iniziati a marzo del 2022, sono stati bloccati dal Consiglio di Stato perché la Cosco non aveva fornito un’adeguata valutazione di impatto ambientale. Il problema però non è solo nei documenti. Come riportato da un’inchiesta di Reporters United, la compagnia cinese avrebbe scaricato fanghi contaminati dai dragaggi portuali nelle zone di pesca limitrofe al cantiere e in cui operano giornalmente i pescherecci greci, i cui prodotti riforniscono poi nei ristoranti di Atene.

A denunciare l’impatto ambientale del mega-progetto targato Cosco è anche il comitato di quartiere noto con il nome di «No al porto nel comune del Pireo». La costruzione del nuovo terminal e dei servizi annessi bloccherà prima di tutto l’accesso al mare degli abitanti della zona, ma comporterà un incremento dell’inquinamento luminoso e dell’aria a causa della massiccia presenza delle enormi navi da crociera a pochi passi dalle abitazioni.

Il progetto porterà anche ad un aumento del numero di turisti, con effetti negativi sulla qualità della vita dei residenti, e darà vita a operazioni di gentrificazione ai danni della comunità locale, che rischia di doversi trasferire in altre zone dalla città per fuggire alle speculazioni e all’aumento dei prezzi.

La decisione del Consiglio di Stato ha acceso i riflettori sull’impatto ambientale del progetto e sulle poche garanzie offerte dai governi ai cittadini, ma il blocco dei lavori non basta a rassicurare gli abitanti. Gli accordi presi tra Cosco e il governo greco sono ancora validi e difficilmente verranno messi in discussione.

L’Italia

Il caso del Pireo rappresenta un monito anche per l’Italia. Entro la fine di quest’anno il governo guidato da Giorgia Meloni dovrà decidere se rinnovare o meno il Memorandum firmato nel 2019 con la Cina o se uscire dalla Belt and Road Initiative.

Gli accordi siglati al tempo dal premier Giuseppe Conte avevano un valore di circa 7 miliardi, ma tra pandemia e guerra in Ucraina non si sono registrati passi avanti nelle loro effettiva implementazione. Ad aver fermato la messa in pratica del Memorandum sono state anche le pressioni degli Stati Uniti da una parte e gli avvertimenti dei Copasir dall’altra, entrambi preoccupati dalla possibile presenza cinese in settori chiave come quello energetico e delle infrastrutture.

In realtà la Cina è già da tempo attiva nei porti italiani, seppur con un impatto minore rispetto a quello del Pireo. Cosco detiene il 40 percento dello scalo di Vado Ligure, mentre un altro 9,9 percento è nelle mani della Qingdao.

Le mire della Cina però sono dirette principalmente verso i porti di Genova e di Trieste, anche se gli unici accordi siglati fino ad oggi dalle Autorità portuali delle due città hanno coinvolto unicamente il gruppo China Communications Construction Company, tra le più grandi imprese mondiali del settore delle infrastrutture. A Taranto invece ha destato preoccupazione la cessione di un terminal del porto particolarmente vicino alla base Nato al Gruppo Ferretti, detenuto da Weichai Group.

Rinnovare il memorandum, dunque, potrebbe avere delle ripercussioni in termini di sicurezza per l’Italia, ma difficilmente il governo Meloni – che pure fa del nazionalismo la sua bandiera – arriverà a stracciare del tutto gli accordi presi da Conte. A pagarne le spese, però, rischiano di essere anche cittadini, lavoratori e ambiente, come dimostra il caso del Pireo.

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