«Questo è il nostro 11 settembre. Un intero paese è sotto choc». Arie Kacowicz è professore di relazioni internazionali all’Università ebraica di Gerusalemme. Negli ultimi quarant’anni ha vissuto e studiato, da cittadino israeliano e da accademico, l’evolversi travagliato della “questione palestinese”, tra tentativi negoziali caduti nel vuoto ed escalation armate.

Mentre i carri armati israeliani muovono verso Gaza, prova ad analizzare la portata dell’offensiva di Hamas, le conseguenze sul piano regionale e le possibili vie d’uscita: «È già accaduto in passato che dei terroristi penetrassero in territorio israeliano, ma un attacco di questa portata è senza precedenti. Ora, però, è il momento di portare al tavolo delle discussioni un po’ di razionalità».

Professore, come si spiega quanto sta accadendo?
Quello a cui abbiamo assistito sabato è un terribile fallimento a livello militare e di intelligence per Israele. Tanti lo paragonano allo scoppio della guerra del Kippur, di cui proprio in questi giorni ricorre il cinquantesimo anniversario, ma credo che sia ancora peggio in termini di impreparazione dell’apparato militare e impatto sui civili.

Stiamo parlando di più di 20 insediamenti attaccati, centinaia di vittime e altrettanti prigionieri in ostaggio, per i quali si apriranno complicatissime trattative. Vista la portata dell’attacco, è evidente che Hamas lo stesse pianificando da mesi, se non anni, eppure siamo stati colti di sorpresa. Gli stessi miliziani saranno rimasti stupiti dalla facilità con cui sono riusciti a penetrare nel territorio israeliano, quasi come fossero in gita.

È troppo presto per parlare di responsabilità?
Credo sia già evidente come la condotta del primo ministro Netanyahu abbia contribuito a creare le condizioni della tragedia a cui stiamo assistendo. Questo su due livelli: primo, il tentativo di colpo di stato istituzionale che lui e il suo governo portano avanti da mesi con la riforma della giustizia ha fortemente indebolito il tessuto sociale e la coesione dell’esercito israeliano.

E i nemici di Israele, da Hamas all’Iran passando per Hezbollah, osservavano da tempo ingolositi. Secondo, quello che sta succedendo non è altro che il risultato del fallimento del paradigma di gestione del conflitto che Netanyahu porta avanti da quando è al potere: ignorare l’Autorità palestinese, lanciare offensive limitate contro Hamas, permettere l’ingresso di qualche migliaio di lavoratori palestinesi da Gaza, ma senza mai aprire un orizzonte politico per la soluzione del conflitto.

A questo si aggiungono le spinte per l’annessione della Cisgiordania da parte dell’ala più estremista del governo e le sempre più frequenti incursioni degli ebrei religiosi sulla spianata a Gerusalemme. Non ho problemi a dire che, in parte, questa tragedia ce la siamo tirata addosso.

Cosa dobbiamo aspettarci adesso?
Purtroppo, temo che quello che abbiamo visto sia solo l’inizio. E questa volta, il governo non si limiterà ai raid aerei che abbiamo nel 2012, nel 2014 e nel 2021.

Lo indica anche il fatto che Netanyahu abbia da subito parlato di “guerra”, non di “operazione” come è accaduto nelle ultime escalation. La massiccia chiamata alle armi del governo suggerisce che Israele stia preparando un’invasione di terra su larga scala con l’obiettivo di decimare la leadership di Hamas.

Se questo dovesse accadere, come credo, il costo umano sarà altissimo. Per questo Netanyahu ha lanciato un appello per un governo di unità nazionale: ha bisogno del sostegno più ampio possibile. 

Nelle ultime ore, Hezbollah ha lanciato razzi dal Libano verso Israele e l’Iran ha dichiarato sostegno per Hamas: c’è il rischio che la guerra si allarghi?
Il rischio c’è, e dobbiamo sperare non accada perché altrimenti le conseguenze saranno ancora più gravi. Hezbollah, però, ragiona in modo diverso da Hamas in termini di costi e benefici: non è molto popolare in Libano, quindi, al di là della retorica, un impegno militare potrebbe non essere conveniente.

E lo stesso vale per l’Iran: sabato, il presidente Biden ha rilasciato una dichiarazione in cui ha dato carta bianca a Israele per rispondere militarmente e messo in guardia «qualsiasi altro attore che voglia trarre vantaggio dalla situazione», riferendosi ovviamente a Teheran.

Due settimane fa, all’Assemblea generale delle Nazioni unite, Netanyahu ha rilanciato l’idea di un “nuovo medio oriente” in cui Israele viva in pace con i suoi vicini. Cosa cambia ora, soprattutto nel percorso verso la normalizzazione con l’Arabia Saudita?
Il riavvicinamento con Riad è un altro elemento chiave per capire perché l’attacco sia arrivato proprio adesso: Hamas, che con l’Arabia non ha un buon rapporto, si è accorto che stava lentamente scivolando ai margini dello scacchiere. L’offensiva è anche un modo per tornare a contare nell’equazione.

In ogni caso, credo che parlare di pace con Israele adesso sia fuori luogo per i sauditi. Potranno giocare un ruolo da mediatori per un eventuale cessate il fuoco, loro come gli Emirati Arabi Uniti, ma credo che la normalizzazione non sia più in agenda, quantomeno finché al governo in Israele ci sarà Netanyahu. Dopo quello che è successo, l’Arabia non può più ignorare la questione palestinese. 

Vede una via d’uscita da questa crisi?
Ce n’è solo una che possa essere efficace sul lungo termine: Israele deve aprire un orizzonte politico per i palestinesi. Cinquant’anni fa successe proprio questo: fu la guerra a sbloccare l’impasse e aprire la strada per il processo che poi portò alla pace con l’Egitto.

Quindi, una volta sconfitto Hamas, bisognerà affidare la striscia di Gaza alle Nazioni unite e all’Autorità palestinese, a cui spetta legittimamente il controllo dell’area, e poi intavolare negoziati seri per arrivare finalmente alla soluzione a due Stati. E qui l’Arabia Saudita potrà senz’altro giocare un ruolo positivo.

Ovviamente, parlare di soluzione significa fermare la costruzione di insediamenti in Cisgiordania e smantellare quelli illegali. Ma forse, visto il governo in carica, sto parlando di fantascienza.

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