«Un sentimento di gratitudine ecco, su questo non ho dubbi. Non soltanto perché si è speso per la chiesa ma anche per come lo ha fatto, con un magistero assolutamente alto e incoraggiante per tutti quelli, e sono tanti e molti di più dei pedofili, dei peccatori, degli arricchiti, che stanno vivendo una chiesa, come posso dire, evangelica e al servizio del Vangelo, questo glielo riconosco sicuramente. Peraltro è anche un magistero che può fare da punto di riferimento per una teologia pubblica in dialogo con il mondo. In secondo luogo esprimo gratitudine anche per aver un po’ demitizzato un ruolo, quello del papa, che rischiava in qualche modo di annullare la persona o di renderla sconosciuta». Ragiona in questi termini sui dieci anni di pontificato di papa Francesco, Marinella Perroni, teologa e biblista, fondatrice del Coordinamento teologhe italiane, docente del Pontificio Ateneo sant’Anselmo.

Libertà di pensiero

Fra le novità introdotte da Francesco certamente c’è quella di un uso della lingua meno retorico e pedante rispetto al passato, composto anche da definizioni originali o tematizzato secondo priorità pastorali ben precise; di questo nucleo fanno parte espressioni come la «chiesa ospedale da campo», la «corruzione che spuzza» (mutuato dal piemontese “spussa”), la «terza guerra mondiale a pezzi», e anche le periferie, gli scartati, il chiacchiericcio riferito alle lotte intestine alla chiesa, la centralità assunta dai migranti, il clericalismo, la sinodalità, come strumento per un cattolicesimo in grado di aprirsi a una partecipazione ampia, anche dei laici, alle forme e ai contenuti dell’annuncio evangelico.  

«Io direi – osserva Marinella Perroni – che in effetti il papa ha liberato il linguaggio da un certo formalismo, sia quando si tratta di un messaggio magisteriale, sia quando, diciamo, si rivolge ordinariamente alle persone. In generale, il linguaggio scelto da Francesco è un segnale interessante di una libertà di pensiero teologico che non può essere ridotta all’idea – come sostengono alcuni critici – che dietro la semplicità non ci sia sufficiente profondità teologica; in realtà anche lui come i suoi predecessori, ha assimilato dei modelli teologici che sta proponendo, solo che si tratta di modelli non eurocentrici e non “di palazzo”, emerge anzi la capacità di comunicare una spiegazione del Vangelo comprensibile ma rispettosa dei dati dell’esegesi».

Fine delle condanne

La libertà d’espressione invocata dal papa per una chiesa che ricominci a discutere apertamente, poi, si è tradotta nella realtà anche in un’opposizione tradizionalista che non ha fatto sconti a Francesco, fino a diventare virulenta nei toni, con accuse di eresia, attacchi personali, tentativi di metterne in discussione l’autorità.

Ma anche quando le voci di dissenso sono state meno violente i toni aspri non sono mancati.  «Questo secondo me – rileva Perroni – è un punto a favore del pontificato perché in fondo Francesco ha detto fin dall'inizio che amava la libertà di espressione che la chiesa doveva essere un luogo all’interno del quale ci si confrontava; e se penso a questa impostazione in rapporto alla teologia si  è trattato di un fatto straordinario: abbiamo cioè chiuso l’epoca delle condanne e dei tribunali, d’altro canto accettando le regole della comunicazione moderna, ha permesso che tutti si esprimessero, anche i Viganò, anche i Müller, i Gänswein».

Scartati e ingiustizie

Sul piano del magistero di Bergoglio, va detto come la chiesa che diventa «ospedale da campo» ha bisogno di tradurre una tradizione antichissima e immensa nel linguaggio del quotidiano, della trincea in alcuni casi, in quanto suo obiettivo è riconoscere la condizione umana per ciò che essa racconta attraverso l’esperienza viva di ogni singolo individuo.

Nel registro linguistico scelto dal papa, dunque, si apre una contesa drammatica fra la rinuncia cristiana, evangelica, al «comandare sugli altri», e il fatto evidente che la chiesa – tanto più il Vaticano, i cardinali, i “palazzi” – esprime anche in modo permanente un’idea di potere, per quanto ridotta possa apparire rispetto al passato.

In tal senso le periferie (comprese quelle “interiori” della solitudine, della perdita della fede) scelte da Francesco come luogo d’elezione dell’evangelizzazione, disegnano un cambiamento di prospettiva: una chiesa in uscita – altra espressione del vocabolario bergogliano – non si rifugia più nei territori noti dell’occidente e nelle sue gerarchie sociali, ma anzi si rimette in cammino spostando il proprio raggio d’azione a partire dalle grandi metropoli del sud del mondo, cercando di incontrare le  popolazioni dell’Asia e dell’Africa dove anche, presumibilmente, crescerà il cattolicesimo di domani.

D’altro canto, la lettura di Francesco su questo punto è stata chiara fin dal principio del pontificato; affermava infatti il papa nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del novembre 2013: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di “intelligence” – spiegava il pontefice – che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’iniquità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice».

«Come il bene tende a comunicarsi – aggiungeva – così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte».

Un allarme, quello del papa, che è stato sottovalutato dall’opinione pubblica occidentale, o forse declassato troppo pigramente come terzomondismo d’altri tempi.

Non per caso, allora, Francesco, da Scampia, agli slum di Manila, da Ciudad Juárez in Messico, a Castelnuovo di Porto alle porte di Roma, è andato fisicamente nelle periferie dove ha incontrato le persone, i migranti, un’umanità spesso scartata dai grandi processi storici ed economici scegliendo di umanizzare e non di criminalizzare i territori e coloro che vi abitano.

Allo stesso modo, pure il collegio cardinalizio si è riempito, in questi dieci anni, di presenze inaspettate, di porpore assegnate a vescovi di piccole chiese di frontiera, seguendo certo pure i calcoli della geopolitica vaticana, di cardinali provenienti da realtà geograficamente periferiche rispetto all’Europa, ma dove sussistono realtà sociali importanti.

In tal modo Francesco ha tracciato una mappa di quella che potrà essere la chiesa del futuro.

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