Trump festeggerà il giorno dell’indipendenza con un trionfo di fuochi artificiali a Mount Rushmore, il massiccio nel South Dakota in cui sono scolpiti i volti di quattro grandi presidenti, nel goffo tentativo di proiettare anche sé stesso fra quelle facce memorabili, e che tuttavia per molti americani che oggi protestano nelle strade sono anche i simboli del peccato originale degli Stati Uniti. Jefferson e Washington erano proprietari di schiavi. La gigantesca scultura che li celebra è stata fatta in una terra depredata ai nativi, che sono stati decimati. Per qualcuno è una contraddizione insanabile che svela il reale volto dell’America.

Nel suo discorso più famoso, nel 1963, Martin Luther King ha detto che la Dichiarazione d’indipendenza è una cambiale che tutti gli americani ricevono in eredità:

“Questa nota era la promessa che a tutti gli uomini – sì, neri e bianchi – sarebbero stati garantiti i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”.

Il reverendo King credeva che la promessa americana sarebbe stata infine mantenuta, che il paese si sarebbe dimostrato un giorno all’altezza di “queste verità” scritte nel documento fondativo, pur tra le tribolazioni e le sofferenze per generazioni di esclusi. Era certo che la cambiale sarebbe stata incassata.

L’America che festeggia il suo mesto 4 luglio ha molti dubbi.

Il 4 luglio del 1776 i delegati delle tredici colonie americane riuniti a Philadelphia non hanno semplicemente affermato l’indipendenza politica da uno stato che imponeva dazi ingiusti. Hanno fatto qualcosa di molto più ambizioso: hanno affermato che la nascente nazione americana si fondava su alcune “verità auto-evidenti”:

“Che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”.

Non era l’appartenenza di sangue o l’ostilità verso la potenza straniera a tenere insieme il nascente stato, ma l’idea che la vocazione di questo Nuovo Mondo consistesse nel mettere progressivamente in atto ciò che era impresso in modo indelebile nell’animo di ogni singolo individuo. L’America è innanzitutto un progetto ideale.

Nel paese che oggi festeggia l’anniversario della Dichiarazione d’indipendenza le verità sui cui poggia l’esperimento non sembrano più così auto-evidenti.

Il paese è lacerato dalle proteste razziali dopo l’omicidio di George Floyd, assediato dalla pandemia che negli ultimi giorni ha toccato i picchi di nuovi casi e ha esasperato le disuguaglianze economiche e sociali, un paese polarizzato e incattivito, preda di un malessere diffuso che si manifesta in molti modi.

Un dato di questi giorni colpisce: nel mese di maggio il numero di overdose è aumentato del 42 per cento rispetto allo stesso periodo nel 2019. La tendenza era già in crescita, il coronavirus l’ha acuita. Le vittime indirette del Covid-19 accrescono così le statistiche delle “morti per disperazione”, come le hanno chiamate gli economisti Anne Case e Angus Deaton, che da anni studiano la dissoluzione della società americana fra oppiacei, suicidi e solitudine patologica.

Quella che appare oggi è una pallida analogia del paese che, in un passato che ora sembra remotissimo, si concepiva come la “città sulla collina” che guida e ispira tutte le nazioni, secondo l’immagine evangelica cara a molti presidenti nella storia americana. Non a Donald Trump. Lui a quella visione luminosa ha sempre preferito la versione paranoide della “carneficina americana”, la patria minacciata dagli immigrati, dai musulmani, dalle élite globaliste, dal deep state, dai “nemici del popolo”, i giornalisti, dagli altri in genere. Non crede all’ideale universalista dei padri fondatori, ma a quello ottuso e in fondo piccolo di un’America che deve farsi great costruendo muri. È su queste premesse nativiste che si erge la sua idea del paese.

Ma la crisi americana è più profonda di Trump. Da tempo noi giornalisti siamo a corto di aggettivi per descriverlo, ma il presidente è anche il catalizzatore di tensioni e sfilacciamenti sociali che non sono iniziati con lui e non scompariranno d’un tratto anche se sarà sconfitto dal candidato democratico, Joe Biden, alle elezioni di novembre.

Il commentatore Damon Linker ha sintetizzato così l’essenza della crisi:

“Si tratta di un rifiuto, da parte di moltissimi americani, di pensare in termini dell’intera società, di ciò che è bene per la comunità, per il bene pubblico o il bene comune. Ognuno di noi pensa a ciò che bene soltanto per sé stesso”.

In questo strano 4 luglio senza le grandi folle con il naso all’insù ad ammirare i fuochi artificiali quello che è in discussione è la natura stessa del progetto americano. Se possa essere una casa comune in cui tutti i suoi membri, senza eccezioni, si riconoscono, pur in mezzo a enormi contraddizioni, difficoltà ed errori da correggere, o se invece gli ideali che sono descritti nella Dichiarazione d’indipendenza erano falsi, e dunque l’America è dall’inizio un esperimento costruito con il solo scopo di opprimere ed escludere. Sono alternative radicalmente opposte.

La vicenda delle statue abbattute o vandalizzate è iniziata anni fa con i simboli confederati del sud, ma in questa ultima e più potente ondata a essere colpiti sono stati anche George Washington, Teddy Roosevelt, Abraham Lincoln, Thomas Jefferson – l’autore principale della dichiarazione d’indipendenza – e molti altri personaggi fondamentali per la storia degli Stati Uniti, tutti colpevoli, a titolo diverso, di aver perpetrato mali con cui ora il paese intende fare i conti. Sono gli imputati di un processo all’idea stessa dell’America.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Trump festeggerà il giorno dell’indipendenza con un trionfo di fuochi artificiali a Mount Rushmore, il massiccio nel South Dakota in cui sono scolpiti i volti di quattro grandi presidenti, nel goffo tentativo di proiettare anche sé stesso fra quelle facce memorabili, e che tuttavia per molti americani che oggi protestano nelle strade sono anche i simboli del peccato originale degli Stati Uniti. Jefferson e Washington erano proprietari di schiavi. La gigantesca scultura che li celebra è stata fatta in una terra depredata ai nativi, che sono stati decimati. Per qualcuno è una contraddizione insanabile che svela il reale volto dell’America.

Nel suo discorso più famoso, nel 1963, Martin Luther King ha detto che la Dichiarazione d’indipendenza è una cambiale che tutti gli americani ricevono in eredità:

“Questa nota era la promessa che a tutti gli uomini – sì, neri e bianchi – sarebbero stati garantiti i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”.

Il reverendo King credeva che la promessa americana sarebbe stata infine mantenuta, che il paese si sarebbe dimostrato un giorno all’altezza di “queste verità” scritte nel documento fondativo, pur tra le tribolazioni e le sofferenze per generazioni di esclusi. Era certo che la cambiale sarebbe stata incassata.

L’America che festeggia il suo mesto 4 luglio ha molti dubbi.

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