C’è un problema di censura in America? Certo è che un premio Pulitzer si è appena dimesso da un giornale accusandolo di averlo censurato. Quel giornale lo aveva fondato lui, per combattere la censura. Il caso scoppia mentre il tema del bavaglio agli intellettuali è oggetto di dibattito negli Usa. Il protagonista è Glenn Greenwald, il giornale è The Intercept e l’articolo al centro dell’episodio riguarda il candidato democratico alle presidenziali Joe Biden.

Carriera da outsider

«La sua indipendenza può renderlo tanto un pericolo quanto una risorsa, per tutti i i lati della barricata». Così, nel 2012, una lista degli opinionisti più influenti d’America catalogava Glenn Greenwald. Nel 2013, quando lavora per il Guardian, c’è lui dietro gli scoop sul DataGate che valgono il premio Pulitzer 2014. Edward Snowden, ex contractor della Cia, individua in questo ex avvocato diventato giornalista (inizia con un blog nel 2005), influente nel mondo della sinistra radicale, l’interlocutore – assieme alla regista Laura Poitras – a cui rivelare la sorveglianza di massa da parte del governo americano.

Accuse ai media

Nel suo libro sul DataGateSotto controllo , Greenwald attacca i media che «si sono prestati a riciclare affermazioni infondate del governo» sulla guerra in Iraq, e quanto alla sorveglianza di massa, «la scelta del New York Times di passare sotto silenzio le intercettazioni dell’Nsa» è letta come «opera di insabbiamento» per non alterare le elezioni 2004. Sei anni fa, Greenwald enunclea quella che diventa oggi la ragione della sua lettera di dimissioni: «Le tacite regole del gioco permettono al governo di controllare e neutralizzare il processo di acquisizione delle notizie e di eliminare il rapporto conflittuale tra stampa e potere».

The Intercept

Dopo il DataGate, Greenwald, Poitras e il collega Jeremy Scahill avviano The Intercept, nato come piattaforma per il giornalismo investigativo. Il fondatore di eBay Pierre Omidyar, che lo finanzia, dice di avere «una crescente preoccupazione per la libertà di stampa negli Usa».

Su The Intercept vengono pubblicate inchieste come quella sui droni killer statunitensi (i Drone Papers) e si esprimono intellettuali come Naomi Klein. Nel 2016 il giornale pubblica mail-rivelazioni riguardanti Hillary Clinton, per le quali Greenwald viene accusato di aver consapevolmente rilanciato dati fornitigli dall’intelligence russa. Lui replica: «Non c’è nessuna prova che ci sia il governo russo dietro l’hackeraggio delle mail, e per me la scelta se pubblicare non dipende dalle motivazioni della fonte». Oggi di quell’episodio dice: «Certo, anche all’epoca, al giornale, qualche collega liberal era imbarazzato perché scrivevamo quelle cose sui democratici. Però le scrivevamo: è il nostro mestiere».

A innescare la rottura è un articolo su Joe Biden e sulla censura operata dagli altri media. Il New York Post ha pubblicato alcune mail di Hunter Biden (figlio di Joe) che riguardano il ruolo del padre, come vicepresidente, in Ucraina, e i tentativi della famiglia di aprirsi opportunità di business in Cina. «Il vero scandalo – scrive Greenwald nel pezzo poi oggetto di censura – è lo sforzo compatto dei media di mettere sotto silenzio la storia». Nonostante i Biden non abbiano contestato l’autenticità delle mail, «che sollevano la questione se il candidato fosse al corrente dei tentativi del figlio di utilizzare i suoi poteri per proprio profitto», un cartello «di poteri, media inclusi, ha compiuto sforzi straordinari per seppellire gli interrogativi, invece di sollevarli».

Censura e dimissioni

La lettera di dimissioni – il ruolo di Greenwald dal 2019 era di editorialista – nasce dal fatto che, a suo dire, «lo staff di editor - tutti sostenitori di Biden - mi ha chiesto di rimuovere i brani critici nei suoi confronti» vietando di pubblicare il pezzo altrove. «In passato sul mio giornale si è potuto scrivere cose che non mettevano in buona luce Biden perché tanti parteggiavano per Bernie Sanders». Ora Biden non è un contendente di Sanders ma l’avversario di Donald Trump, e «una collega ha ammesso che vogliono evitare qualsiasi cosa possa contribuire alla vittoria di Trump».

Ultimo episodio di una serie: «Ormai da tempo, The Intercept non è più quello che fondammo». Invece di dar spazio al dissenso, «ha paura di offendere il liberalismo che è culturalmente egemonico», e invece di andare controcorrente, si allinea. Greenwald si aggiunge a una lista di dimissionari, e a un dibattito sulla censura che coinvolge noti intellettuali.

«Mentre ce lo saremmo aspettati dalla destra radicale, l’atteggiamento censorio si sta diffondendo in modo ampio nella nostra cultura» hanno scritto a luglio, in una lettera su Harper’s Magazine, intellettuali di orientamenti trasversali, come Noam Chomsky, Francis Fukuyama, J.K.Rawling, denunciando «una intolleranza per le visioni diverse, una tendenza ad annullare la complessità dei punti di vista in favore di certezze morali».

A furia di rincorrere il politicamente corretto, si finisce per costringere il pensiero nelle gabbie del conformismo. «I am somehow silenced», dice ora Greenwald: vogliono mettermi sotto silenzio. E non è la destra a farlo, ma il fronte opposto. I casi di giornalisti dimessi per censura si rincorrono: al New York Times l’editorialista Bari Weiss, assunta per dar voce a punti di vista conservatori, ha accusato «atteggiamenti illiberali». Andarsene, ma dove? Greenwald si mette in proprio (su substack, piattaforma per newsletter), qui pubblica il pezzo censurato, e si aggiunge alla schiera sempre più folta di giornalisti-autori di newsletter. Matt Taibbi lo ha fatto «per mostrare che il modello funziona, anche finanziariamente, per gli spiriti indipendenti». Chiedere sostegno a lettori e abbonati: se non è il futuro, pare sia il presente del giornalismo senza padroni.

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