Il giorno politicamente più lungo di Israele, quello in cui pressato dall’America il suo governo deve pronunciarsi sull’intesa con Hamas, si chiude con un “no”.

Alla mossa di Hamas di andare a vedere il gioco, rilanciando e gettando la palla in campo nemico – il pacchetto negoziale prevedeva un cessate il fuoco totale, il completo ritiro israeliano da Gaza, sia pure in tre fasi della durata di 45 giorni; la ricostruzione della Striscia – il premier risponde con l’inequivocabile parola d’ordine “vittoria!” e l’affermazione che il conflitto di chiuderà solo con l’eliminazione dell’organizzazione islamista palestinese.

Dire “sì” non farebbe che ricostituire le condizioni per un nuovo massacro, ha argomentato il premier.

Del resto, Bibi ha percepito la proposta di Hamas come una polpetta avvelenata, capace di vanificare gli obiettivi perseguiti con drastico uso della forza dopo il 7 ottobre: liquidazione di Hamas, desertificazione della Striscia, destinata a diventare desolata fascia di sicurezza, nessun stato palestinese all’orizzonte.

Respingendola, Netanyahu ha cercato di bloccare la tenaglia che lo stava chiudendo nella morsa. Dietro all’indigeribile accordo sugli ostaggi, infatti, Bibi ha scorto l’esito più temuto, difficile da contrastare perché messo sul piatto dall’amico americano: il riconoscimento di uno stato palestinese in cambio della normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita.

La diplomazia Usa

Il segretario di Stato, Antony Blinken, che gli ha ribadito la necessità di quella strategica opzione, aveva affrontato il tema solo ventiquattro ore prima con Mohammed Bin Salman, disponibile a farsi carico della costosissima ricostruzione di Gaza solo in quella specifica cornice e nel segno di una ritrovata intesa politica e militare con gli Stati Uniti.

Svolta che consentirebbe al discusso Mbs di conseguire più obiettivi: mettere fine alle divergenze con gli Usa, esplose dopo l’assassinio di Khashoggi, che avevano fatto del principale alleato del Golfo una sorta di paria internazionale; assumere il ruolo di “autentico” protettore dei palestinesi, pure a lungo dimenticati dalla monarchia saudita, elevando il tasso di legittimazione interna ed esterna del reame che, forte del risultato, potrà procedere speditamente sulla via della modernizzazione non del tutto gradita ai settori più intransigenti del wahhabismo; vedere assicurata la sicurezza del regno da un nuovo accordo di cooperazione militare con Washington e, forse, anche dal via libera al nucleare: deterrenza capace di scoraggiare eventuali tentazioni dell’Iran. Garanzia valida anche nel caso la politica americana volgesse un giorno lo sguardo verso casa o al Pacifico.

A sua volta, Hamas ha cercato di massimizzare la rendita politica all’insegna di una linea marcata più dall’ala esterna guidata da Haniyeh che da quella che a Gaza fa capo a Sinwar, espressione, a parti inverse rispetto alle prime settimane di guerra, di diverse posizioni sul proseguimento del conflitto.

Se Sinwar – che ha bisogno di tempo per riorganizzare le residue forze nel sottosuolo della Striscia ed evitare che, sopra i tunnel, la stremata popolazione gazawi sia ulteriormente martoriata e tolga l’appoggio alla sua organizzazione – era disposto a accettare una tregua di un mese e mezzo in cambio degli ostaggi, il leader rifugiato a Doha ha, invece, visto nella trattativa l’occasione per divaricare ulteriormente Usa e Israele.

Alzare la posta

Così Hamas ha alzato la posta, chiedendo non solo il rilascio di migliaia di giovani, anziani e malati, detenuti amministrativamente nelle carceri israeliane ma anche quello di 1.500 quadri politici e militanti di primo piano delle diverse organizzazioni palestinesi, molti dei quali già condannati.

Ha domandato, poi, che venga tolto agli ebrei il permesso di accedere alla Spianata delle Moschee, situata dove sorgeva anticamente il Terzo Tempio, senza coordinarsi con il Wafq, l’ente che amministra i luoghi santi dell’islam: questione destinata a sollevare ulteriori resistenze nella destra messianica israeliana che sui luoghi della memoria religiosa non tollera interferenze.

A chiudere il cerchio, Hamas ha indicato tra i garanti dell’accordo, oltre Usa e Egitto, anche Qatar, Turchia e Russia, paesi ritenuti vicini all’organizzazione.

Netanyahu ha rifiutato l’intesa sia per salvare l’unità della sua maggioranza, sempre sotto scacco dell’estrema destra nazionalreligiosa e suprematista, sia il proprio destino personale. Anche a costo di irrigidire come mai in precedenza i rapporti con l’amministrazione Biden.

Lacerazione vera, quella tra Washington e Tel Aviv. Lo si evince anche dalle cronache del programmato incontro tra Blinken e il capo di stato maggiore dell'esercito israeliano Halevi che, nelle precedenti missioni del segretario di stato Usa, aveva partecipato ai summit come esponente del gabinetto di guerra.

Modalità inusuale, che evidenzia come Blinken puntasse a avere con l’alto ufficiale uno scambio sulla reale situazione sul campo, dove Tsahal incontra maggiori difficoltà del previsto nel venire a capo di Hamas, ma anche sondare l’atteggiamento delle forze armate nel caso le tensioni politiche con gli Usa si esacerbassero.

L’insormontabile, e irato “no” di Netanyahu, che ha fiutato immediatamente il corto circuito politico e istituzionale generato dall’annunciato colloquio, ha mandato tutto a monte. Scintilla rivelatrice del clima teso tra storici alleati , manifestatosi anche con l’esortazione di Blinken a evitare ogni tensione in Cisgiordania.

In questi termini, la risposta di Netanyahu non è solo un “no” a Hamas, ma anche all’America. Bibi spera di ricucire con gli Usa se Trump tornerà alla Casa Bianca. Ma l’esito non è scontato e sette mesi sono lunghi. Nel frattempo i Merkava scaldano i motori, preparandosi a attaccare Rafah, al confine egiziano della Striscia, una battaglia che potrebbe incendiare la regione.

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