L’attacco di lunedì 16 ottobre a Bruxelles, costato la vita a due tifosi svedesi, segna drammaticamente il ritorno del terrorismo jihadista in Europa. Il modus operandi di quell’atto di violenza ricorda da vicino quello di molti altri episodi degli ultimi anni, con un attentatore (purtroppo già noto alle autorità) che, pur rifacendosi alla causa di un’organizzazione del jihadismo globale, agisce da solo, con un piano d’azione piuttosto rudimentale, e per fortuna senza essere in grado di provocare un numero molto elevato di vittime.

D’altra parte, almeno due aspetti dell’attacco di Bruxelles meritano attenzione. In primo luogo, colpisce l’impiego dell’arma da fuoco (addirittura un fucile automatico), che era divenuto raro negli attacchi jihadisti in Europa dopo il 2017, principalmente a causa di difficoltà pratiche nel reperire questo tipo di arma micidiale.

In secondo luogo, mentre in Europa ormai da molti anni la maggior parte degli attentatori è costituita da persone nate o quantomeno cresciute nel paese colpito dalla violenza, spesso di giovane età, l’attentatore, il tunisino Abdesalem Lassoued, era un migrante di 45 anni, peraltro sbarcato proprio a Lampedusa come irregolare nel 2011.

L’attacco di lunedì 16 ottobre a Bruxelles, che segue quello nella cittadina francese di Arras di venerdì 13 ottobre, potrebbe persino prospettare l’inizio di un cambiamento nell’evoluzione della violenza jihadista in Europa.

In generale, le attività jihadiste non si sono mai interrotte nel vecchio continente: singoli jihadisti o piccoli gruppi hanno continuato a operare clandestinamente, producendo autonomamente o quantomeno diffondendo materiali di propaganda, specialmente su Internet, svolgendo attività di proselitismo, raccogliendo fondi per la causa estremistica e in alcuni casi portando a termine anche sparuti attacchi terroristici.

Gli arresti di Milano

La prosecuzione di questi sforzi clandestini è dimostrata anche dall’operazione di polizia scattata ieri a Milano, sulla base di indagini avviate già nel 2021: i due uomini di origine egiziana arrestati dalla polizia di stato, secondo gli inquirenti, si riconoscevano esplicitamente nella missione dello Stato islamico e si erano resi disponibili a sostenerlo attivamente, pur non risultando impegnati nella pianificazione di atti di violenza.

D’altra parte, è vero che dopo il 2017 anche in Europa la minaccia jihadista è sicuramente apparsa in declino, in corrispondenza con il declino e, nel 2019, il crollo del “califfato” territoriale in Siria e Iraq: gli attacchi terroristici si sono fatti meno frequenti e soprattutto meno sanguinosi, il flusso di foreign fighters (spesso con familiari al seguito) diretto verso il Medio Oriente si è sostanzialmente interrotto, la produzione di propaganda ufficiale dello Stato islamico e di altre organizzazioni jihadiste si è ridotta notevolmente sia in quantità sia in qualità.

La diminuzione della minaccia terroristica è apparsa ancora più evidente in Italia, paese che rispetto ad altre nazioni europee e occidentali ha mostrato un livello decisamente inferiore di vulnerabilità a questo genere di pericoli, anche grazie al contributo di un sistema antiterrorismo preparato, coordinato e piuttosto aggressivo.

Picchi e riflussi

Oggi il rischio è che questa fase di declino della minaccia terroristica in Europa possa essere persino giunta alla sua conclusione. A ben guardare, oltre trent’anni di storia del jihadismo in Europa insegnano che il fenomeno tende a presentarsi con picchi e riflussi nel corso degli anni. Inoltre, le varie ondate che si sono succedute nel tempo sono state tipicamente innescate da eventi e crisi che si sono manifestate al di fuori o, al più, ai margini del vecchio continente: la guerra in Afghanistan negli anni Ottanta, le guerre balcaniche negli anni Novanta, il conflitto scoppiato in Iraq dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003 e la guerra civile in Siria dal 2011.

Una nuova ondata?

Sebbene sia naturalmente troppo presto per giungere a conclusioni perentorie, appare utile valutare con attenzione il rischio che una nuova ondata di jihadismo possa emergere in Europa a seguito della drammatica escalation del conflitto israelo-palestinese, dopo l’offensiva condotta da Hamas e altri gruppi armati palestinesi il 7 ottobre.

Il conflitto israelo-palestinese non può certamente essere ricondotto alla traiettoria del jihadismo globale, animata da ben note organizzazioni come al Qaida e lo Stato islamico. Queste due organizzazioni transnazionali peraltro non hanno mai nascosto la loro ostilità per la stessa Hamas, da loro stigmatizzata come banda di “apostati”, disprezzata per la sua storica connessione con il movimento dei Fratelli musulmani, e ferocemente criticata per i rapporti sempre più stretti con attori sciiti della regione come la Repubblica islamica dell’Iran e Hezbollah.

Nondimeno, tale è la valenza politica e simbolica del conflitto tra Israele e gruppi armati palestinesi che una sua escalation, della portata senza precedenti con cui stiamo assistendo, può servire da innesco anche per l’azione di simpatizzanti e militanti jihadisti che si trovino in Europa.

Il conflitto in corso non soltanto può provocare fortissime reazioni emotive di frustrazione, ira e senso di rivalsa, ma può anche consentire di rilanciare strumentalmente parole d’ordine e narrazioni già care agli jihadisti globali, come l’odio irriducibile contro gli ebrei, così come per i loro alleati “crociati”, la simpatia per le sofferenze e per le presunte ingiustizie e discriminazioni subite da altri musulmani nel mondo, senza dimenticare persino richiami di tenore apocalittico.

D’altra parte, vale la pena di aggiungere per inciso che gli ultimi tragici sviluppi a Gaza hanno provocato reazioni durissime, persino con riferimenti di glorificazione del jihad armato, anche tra esponenti dell’islam politico tradizionalmente non violento.

In conclusione, l’inasprimento del conflitto tra Israele e gruppi armati palestinesi può avere indirettamente effetti profondi anche sul jihadismo in Europa e in occidente.

© Riproduzione riservata