«L’esercito israeliano non è andato via per davvero. Sulle nostre teste continuano a ronzare droni giorno e notte». Rana al Magawi prima della guerra era una insegnante. Dopo la morte di sua nonna qualche settimana fa è fuggita al sud, ed è tornata solo lunedì nella sua casa nel campo di Nuseirat, nel quartiere di Deir el Balah. Con lei sono rientrate altre decine di persone che, a piedi, trascinando pochi averi, hanno lasciato Rafah per andare a vedere cosa è rimasto delle loro case. Niente.

La notizia dell’allontanamento di alcune delle truppe di terra ha convinto poche persone, per ora, che il pericolo sia passato. Anche perché i raid stanno continuando. «Le esplosioni sono forti e molto vicine», dice ancora Rana. «Nel campo di Nuseirat, proprio sopra la mia testa, le notti scorse hanno bombardato tantissimo e sono morte almeno 20 persone. Ancora una volta sono viva per miracolo». Quando l’area centrale della Striscia qualche giorno fa è stata parzialmente liberata, quei pochi palestinesi che hanno deciso di tornare han pensato che non fosse molto sicuro lasciare Rafah da soli, alla spicciolata. E così si sono organizzate delle carovane a seconda della destinazione.

Quella diretta a Khan Younis è stata più corposa, perché in molti hanno voluto andare a vedere con i propri occhi cos’era successo. «Qui è tremendo», spiega Rana. «Alcuni hanno avuto un attacco di cuore nel vedere la propria casa sbriciolata. Hanno trovato tutto distrutto, e quel che non era stato bruciato o disintegrato è stato razziato dai militari. Alcuni oggetti personali sono stati sfregiati con urina e feci». Camminare tra le rovine di Gaza è doloroso, ma anche pericoloso.

«Ci sono molte bombe inesplose che potrebbero detonare anche solo se si sposta un sasso», racconta Zakaria, che aiuta la protezione civile con i mezzi che ha, «per questo non tutti vogliono tornare. Molti», racconta, «stanno pensando di accamparsi da qualche parte sulla spiaggia e intanto racimolare i soldi per andare via da Gaza».

Scappare

L’impulso di scappare dalla Striscia non è mai svanito, e, alla luce della distruzione che resta, anche chi finora non ci aveva pensato adesso ci sta ragionando. «In un modo o nell’altro dobbiamo andare via di qua», racconta Majeeda che ha perso suo figlio nei primi due mesi di guerra. «Abbiamo aperto una sottoscrizione per ricevere donazioni e stiamo anche cercando contatti con associazioni internazionali per avere un lascia passare». Nessuno a Gaza crede che la guerra sia finita, e in pochi si fidano degli accordi in corso al Cairo. Intanto sono cominciati i quattro giorni di festeggiamento dell’Eid Al Fitr, che segue l’ultimo giorno di Ramadan. Ma non c’è gioia, non c’è molto da celebrare, né cibo o luci per fare festa, come di consueto avviene in questo periodo dell’anno. Tra le rovine di Khan Younis la gente un po’ piange, un po’ si rimbocca le maniche per capire come continuare a sopravvivere.

E si è aperto un grande dibattito tra chi sta pensando di lasciare per sempre Gaza e chi, invece, vuole ricostruire tutto. «Non diamogliela vinta ad Hamas, non lasciamogli la terra come Israele vorrebbe che facessimo», dice un gruppo di donne. Stanno promuovendo un’associazione per riunire coloro che non vogliono combattere ma resistere sì, per proteggere le loro radici e la loro storia. «Chiediamo soldi a parenti e amici nel mondo per ricostruire le nostre case, non per scappare», dice Rana, «altrimenti faremo il gioco di Israele, che al posto delle nostre case costruirà hotel di lusso sulla spiaggia». La voce che si oppone è quella di Majeeda, portavoce di un nutrito gruppo di cittadini di Khan Younis.

«Non c’è speranza di ricostruire e vivere in pace», dicono. «Hamas tornerà, e la guerra non avrà mai fine. Prima o poi moriremo tutti, voglio salvare i figli che mi restano», dice. Sulle piattaforme di crowdfunding, effettivamente, alle moltissime richieste di fondi per evacuare la Striscia se ne sono aggiunte alcune per ricostruire la propria vita a Gaza. Sono ancora poche, però di giorno in giorno qualcuna in più compare.

Le somme da raggiungere sono molto alte, e per ricostruire davvero Gaza serviranno molti milioni di dollari. «L’80 per cento del territorio è distrutto, e ci vorranno diversi anni per rimettere in piedi anche solo le infrastrutture di base, come le scuole, gli ospedali, le moschee», spiega Nabegh, un ingegnere civile di Gaza city.

È ancora presto per capire cosa succederà, anche perché la maggior parte dei palestinesi non si è ancora spostata dal sud al nord.

A Rafah ci sono tuttora un milione e mezzo di persone che non sanno dove andare. «Se ci sarà un cessate il fuoco, forse alcuni potranno tornare verso Gaza city o nel nord della Striscia, anche se lì è tutto distrutto», spiega il giornalista Hassan Isdodi, che vive proprio a Rafah. «Ma circola la voce che l’Idf (le forze di difesa israeliane) identificherà delle zone centrali della Striscia per poterci trasferire temporaneamente».

«Non sappiamo quando, ma sappiamo che invaderanno Rafah», spiega Hassan, «nonostante le pressioni mondiali affinché non succeda, dal momento che è impossibile condurre qualsiasi operazione militare senza uccidere centinaia di sfollati». In questo momento Rafah è una delle zone più densamente popolate della regione. Alcuni vivono nelle scuole, ma la gran parte dei gazawi è dislocato in dieci campi profughi.

I restanti, quelli che sono accorsi a Rafah nelle settimane successive al grande esodo, sono accampati sotto tendoni ai margini del confine con l’Egitto.

È, dunque, impossibile entrare qui con i carri armati senza compiere una strage. O senza spostare le persone, ma dove?

«Sappiamo che il governo di Israele ha comprato o starebbe per comprare 40mila tende», spiega ancora il giornalista, «ma non saranno mai abbastanza per tutti, e quindi l’agitazione sta crescendo di ora in ora».

Gli affari dei trafficanti

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E quando la tensione sale, i trafficanti sono i primi che sanno come sfruttare la situazione. Al racket dei permessi per uscire da Gaza si starebbe, infatti, aggiungendo quelle delle tende. «Ci sono persone che dicono di poter intercedere per poter far ottenere con certezze le tende del governo e un posto assegnato», ci raccontano da Rafah. «Visto che sono così poche, sarà una specie di lotteria, e allora la disperazione ci porta a compiere gesti che non sono molto sensati, come quello di comprare al mercato nero una tenda che l’Idf potrebbe consegnare gratis. Ma a quanti di noi?»

A Rafah il pettegolezzo si sta diffondendo velocemente, e con la prospettiva di una imminente invasione in molti stanno facendo dei calcoli per capire se vale la pena provare a comprare a caro prezzo un rifugio di tela dai contrabbandieri.

«Una tenda per una famiglia di sei/sette persone costa all’incirca 700 shekel, l’equivalente di 185 dollari», spiega Hassan Isdodi, «che sono un sacco di soldi, e dubito che tutti possano permettersi di pagarli». Soprattutto se a questa cifra si aggiunge la commissione del trafficante per una somma che arriva a quasi 210 dollari.

«Non sappiamo ancora come l’esercito ha intenzione di organizzare questa distribuzione di tende, e nemmeno sappiamo dove esattamente ci sposteranno. Ammesso che davvero ci faranno traslocare».

Il timore è che, come già avvenuto molte volte in questi mesi di guerra, Israele possa cominciare i raid aerei e le sparatorie in strada all’improvviso. Senza avvertire.

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