Russia, la propaganda a scuola. Pavel Talankin: «Così Putin alleva nuovi soldati»

Quando Vladimir Putin annuncia l’invasione su larga scala dell’Ucraina, nel febbraio 2022, a cambiare non sono solo gli equilibri geopolitici ma anche la vita di un giovane professore russo. Pavel Talankin – Pasha per amici e studenti – ha 33 anni, è insegnante e coordinatore degli eventi di una scuola pubblica di Karabash, cittadina degli Urali. Nel 2020, gli alti tassi di mortalità per cancro e malattie respiratorie legati all’estrazione del rame fanno conquistare a Karabash un triste primato: secondo l’Unesco è la città più inquinata del pianeta. Negli ultimi decenni la popolazione è passata da 50.000 abitanti a poco più di 10.000. Tra i giovani rimasti c’è anche Pasha. Almeno fino alla guerra. Amato dai suoi studenti, l’insegnante è immerso in un sistema educativo povero di mezzi ma che, fino a quel momento, è ancora relativamente libero. «C’erano problemi strutturali, mancava molto», spiega a Domani in un’intervista esclusiva da Praga, in Repubblica Ceca, dove vive ora. «Ma nessuno interferiva nei programmi didattici. Facevamo conferenze scientifiche, archeologiche, concorsi creativi». Mosca, fino all’ultima censura: la lenta agonia del web russo La guerra cambia tutto In meno di due settimane dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, la vita scolastica della scuola numero uno di Karabash viene stravolta da una comunicazione arrivata da oltre 1.700 chilometri di distanza, direttamente dal ministero dell’Istruzione di Mosca. È l’inizio di una trasformazione profonda e inquietante: la scuola diventa uno degli snodi centrali della propaganda di guerra e dei programmi del Cremlino per plasmare le generazioni future. I programmi di storia devono essere riadattati sulle mire espansionistiche di Putin e sui confini “storici” russi; i bambini, anche i più piccoli, devono seguire corsi di marcia militare, saper maneggiare un fucile o riconoscere una mina. Il compito di Pasha? Filmare tutto. La prima reazione del giovane insegnante è però quella di rifiutare e di non voler avere nulla a che fare con i programmi del Cremlino. Quando gli viene chiesto di filmare le lezioni di propaganda, presenta le dimissioni. Il gesto è immediato, istintivo. Pavel "Pasha" Talankin, dal trailer del suo documentario

[Missing Credit] Fino a ripensarci: Pasha capisce che proprio quella videocamera, imposta dall’alto, può diventare l’unico strumento per documentare ciò che sta accadendo. Revoca le dimissioni e resta. «Mi sono reso conto che era la mia unica arma», afferma. Da quel momento, filmare non è più stato solo un obbligo, ma una scelta. Al fronte poveri e contadini: Putin “spreme” la provincia Filmare per obbligo, restare per scelta All’inizio Talankin non pensa di fare un film. Filmare è parte del suo lavoro. «Il mio compito era riprendere le lezioni per rendicontare al ministero dell’Istruzione», dice dallo schermo. «Sinceramente non capisco perché ne avessero bisogno». Ma già dalla prima lezione che registra capisce che quelle immagini non possono essere cancellate. «Mi è stato subito chiaro che non avevo alcun diritto morale di buttare via quello che avevo filmato». Le riprese mostrano insegnanti costretti a seguire copioni preconfezionati, bambini coinvolti in rituali patriottici, la guerra che entra in classe sotto forma di educazione civica. «Non avevo alcun diritto morale di cancellare tutto», sottolinea. «È una testimonianza di ciò che sta succedendo oggi in Russia: di come gli insegnanti vengano costretti a educare una generazione leale, a fare propaganda, a dire ciò che lo stato vuole sentirsi dire». Mr. Nobody Against Putin mostra una realtà raramente documentata dall’interno: candele realizzate per i soldati al fronte, lettere di incoraggiamento, reti mimetiche intrecciate durante le lezioni di tecnologia. «Dopo l’inizio della guerra tutto è cambiato drasticamente», osserva Talankin. «Sono comparse lezioni di propaganda». E nulla di tutto questo, precisa, nasce dal basso. «Ho sentito dire che fosse un’iniziativa spontanea degli insegnanti. È una bugia assoluta». Gli ordini arrivano direttamente dal ministero. «A marzo abbiamo ricevuto linee guida, programmi già pronti. Due settimane dopo l’inizio della guerra». Prima, aggiunge, «nessuno sapeva come reagire». All’inizio l’idea non è quella di realizzare un documentario. «Non avevo l’obiettivo di farne un film», chiarisce. «Volevo solo inviare tutto il materiale raccolto affinché le persone lo vedessero». Forse, ammette, sarebbe potuto diventare un servizio giornalistico per qualche media estero, perché «in Russia non è possibile parlare liberamente di certe cose». L’infinita tangentopoli russa. Ma gli arresti rafforzano Putin Il regista americano, la fuga L’idea del documentario nasce più tardi, quasi per caso. Pasha entra in contatto con il regista statunitense David Borenstein tramite Instagram. Una produzione stava cercando storie dalla Russia, ma aveva rifiutato di lavorare a contenuti sulla propaganda scolastica. «Non volevano girare un film sulla scuola», ricorda. «Poi i contatti sono passati di mano in mano e la storia è arrivata a David, che ha accettato e se n’è assunto la responsabilità». È proprio questa collaborazione a esporlo al pericolo. «Avevo paura che scoprissero che collaboravo con un regista americano», confessa. «Da un lato nel mio lavoro non cambiava nulla: filmavo perché dovevo farlo. Ma il fatto di inviare tutto all’estero, di parlare con un regista americano, quello sì, faceva paura». In Russia, spiega, «questo tema è proibito, è un tabù». Una frase come “collaboro con un regista americano senza il vostro permesso”, avverte, «avrebbe potuto semplicemente distruggermi». Il contesto è quello di una repressione capillare. «È molto difficile opporsi», dice. «Quando ricevi ordini sul lavoro è difficile non eseguirli, perché non sai mai come uno dei trenta studenti potrebbe reagire». La delazione è una minaccia costante. «In Russia c’è una fortissima ondata di repressioni e di delazioni. Ne soffrono insegnanti e studenti. Purtroppo, questi casi sono successi davvero». Nell’estate del 2024, quando la sua sicurezza viene seriamente messa a rischio, Talankin decide di fuggire. Oggi vive a Praga. «La vita è stabile», afferma con lo sguardo a tratti perso. Ma il futuro resta sospeso. «Non riesco a immaginare che, dopo tutto quello che dicono di me nei media propagandistici, io possa atterrare in aeroporto e passare tranquillamente la dogana. Posso immaginare di comprare un biglietto per la Russia, salire su un aereo, ma quello che succederebbe dopo non riesco nemmeno a immaginarlo». Trump fa squadra con Putin per infangare l’Ue, ma stiamo meglio noi degli Usa Il sogno degli Oscar Nonostante la fuga, a rimanere a Karabash è stata la mamma di Pasha, dipendente anche lei nella stessa scuola dove lavorava il figlio. Pasha spiega che secondo la stampa filogovernativa russa la donna sarebbe stata licenziata “con vergogna” dopo l’uscita del documentario. «Mi ha scritto tutto questo mentre era al lavoro», racconta Talankin. «Mi ha detto: “Immagina, sono proprio ora al lavoro e ho appena letto che sarei stata licenziata”». Continuano a sentirsi regolarmente, anche se a distanza. Ma Pasha non sa se la rivedrà. E non sa se tornerà mai in Russia. Mr. Nobody Against Putin, prodotto dalla Danimarca, è stato premiato dalla giuria al Sundance Film Festival e la scorsa settimana è entrato nella shortlist degli Oscar nella sezione miglior documentario. Un risultato che Pasha non avrebbe mai immaginato. «No, non me lo sarei mai aspettato», ammette. «All’inizio pensavo solo a filmare tutto e spedire il materiale». Con la visibilità internazionale sono tornati anche gli attacchi in Russia, tra insulti e presunte “analisi di esperti”. Ma è emerso anche qualcosa di inatteso. «Molte persone di Karabash amano questo film così tanto che percepiscono ogni insulto al film e a me come un insulto a loro stessi». Mr. Nobody Against Putin è la storia di un uomo qualunque che ha scelto la verità in un sistema che punisce il dissenso. Un film che racconta come la guerra non entri nella società solo attraverso i carri armati, ma attraverso le scuole, i rituali, le parole rivolte ai più giovani. E come, anche nei sistemi più repressivi, qualcuno abbia avuto il coraggio di testimoniarle.