Quando si cammina per le strade di Singapore, con gli occhi rivolti verso i grandi e ombrosi alberi della pioggia (samanea saman), i gelam (melaleuca cajuputi), o i Fiamma Gialla (peltophorum ptercarpum), o ancora ai diversi tipo di ficus, con le radici che formano serpeggianti muretti, strategia arborea per proteggersi dai forti venti monsonici, ci si può lasciare cullare verdemente dal risultato della cura con cui schiere di giardinieri si occupano di mantenere la natura di città nel suo stato ideale.

L’esuberanza delle piante epifite appoggiate sui tronchi degli alberi aggiunge un tocco quasi di preistorico: grosse felci a nido, di dimensioni possibili solo ai tropici, orchidee aeree, vischio cinese, felci a corno di cervo…

Le piante epifite sono quei prodigi di natura che crescono su altre piante: non sono parassite, ma utilizzano il tronco o le biforcazioni dei rami che incontrano solo per appoggiarsi, e allacciare le proprie radici. Traggono nutrimento dall’aria e dall’acqua piovana; senza danneggiare la pianta su cui poggiano, compagne ingombranti forse, ma non soffocanti.

I parchi

A parte le strade alberate, però, grazie a decenni di decisioni istituzionali, è previsto che a Singapore si possano passare giornate intere immersi nel verde.

Ci si può perdere nel giardino botanico (uno di soli tre giardini botanici a fare parte del patrimonio mondiale dell’umanità, insieme ai Giardini botanici reali di Kew, a Londra, e all’Orto botanico di Padova), oppure ai Gardens by the Bay – 101 ettari di terra bonificata e riportata dal mare, un giardino pieno di piante dalle foglie argentate sovrastato dai superalberi, le strutture futuriste a forma di albero alte fino a 50 metri che spesso rappresentano Singapore, dopo aver sbalzato via dall’immaginario collettivo il mitico leone marino a cui la città deve il nome, e su cui crescono 18mila specie di piante.

C’è il parco naturale Rifle Range, parte di una serie di progetti di rewilding, o ri-inselvatichimento, che vedono vecchie cave o zone industriali convertite a parchi e attraversate, in alto fra le fronde, da pensiline ciclabili dove si può anche passeggiare o fare jogging – per chilometri, sospesi sul verde.

C’è il MacRitchie Reservoir, un’oasi verde con un lago artificiale intorno a cui sono state costruite case popolari. E la collina di Bukit Timah, la più alta di Singapore, dove rimangono gli ultimi ettari di foresta pluviale primaria di questa città di cinque milioni di abitanti.

C’è perfino un parco dentro all’aeroporto internazionale di Changi, ricchissimo di piante e di un’aria umida e fresca che hanno fatto rischiare a non pochi passeggeri di perdere il loro volo. Parchi e giardini si susseguono uno dopo l’altro, collegati dal PCN, o Park Connector Network, pista ciclabile e pedonale lunga trenta chilometri e fiancheggiata da piante, che collega le principali zone verdi della città.

La storia

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Un recente tentativo di visitare “tutti” i giardini di Singapore in una settimana si è dovuto arrendere all’impossibilità di essere in così tanti luoghi in così poco tempo: ogni incontro infatti diventava una lista di giardini preferiti, nuove aree rinverdite da poco, passerelle fra le fronde appena aperte al pubblico, in un susseguirsi di appunti su cui era impossibile raccapezzarsi.

Per quanto Singapore sia ai tropici, dove un clima sempre caldo e umido consente alle piante di crescere come se avessero fretta, tutta questa profusione verde che oggi descrive la città non aveva nulla di inevitabile, anzi: quando la Compagnia delle Indie Orientali, il braccio commerciale del colonialismo britannico, arrivò qui, alla punta sud della penisola malese, nel 1819, decisa ad approfittare della posizione strategica del porto di Singa Pura (nome del mitologico leone marino di cui sopra), la quasi interezza dello spazio era foresta pluviale primaria.

Poco più di settant’anni dopo, l’amministrazione coloniale era riuscita a disboscare il 95 per cento del territorio dell’odierna Singapore, lasciando per l’appunto quei pochi ettari a Bukit Timah, dopo essersi lanciata in varie attività che dovevano rendere il terreno economicamente fruibile, tramite gli alberi della gomma, del gambier (utile all’industria della pelle) o altre piantagioni redditizie.

Bisogna aspettare l’indipendenza, dopo la Seconda guerra mondiale e dopo la rottura con la Malaysia – quando il padre fondatore di Singapore, il primo ministro Lee Kwan Yu, decide che la sua città natale, scossa da decadi di colonialismo, invasioni, guerra e sommosse, sarebbe diventata un giardino, “verde e pulito”.

Il capo giardiniere

Con la pragmaticità e l’autoritarismo con cui Lee metteva in atto le sue decisioni, ecco che dai primi anni Sessanta del secolo scorso sono state organizzate campagne per piantare alberi e prendersi cura di quelli esistenti.

Nel 1967, poi, la cristallizzazione del progetto in qualcosa che più singaporiano non si può: Lee decide che la città deve diventare un giardino, di fiori e di alberi, e che la popolazione debba essere addestrata “a non danneggiare il buon lavoro del governo”, proteggendo la natura, partecipando alle giornate nazionali per piantare alberi (il 7 novembre, all’inizio della stagione delle piogge), e venendo multata in modo salato se getta per terra rifiuti.

Fra tutte le scelte governative imposte dall’alto, è impossibile trovare da ridire proprio su questa: oggi Singapore è verde al 50 per cento del suo territorio, e i nuovi edifici devono assicurarsi di avere una superficie verde pari al metraggio costruito, ricoprendo tetti e balconi di alberi e piante, e trovando ogni possibile astuzia per inserire almeno qualche foglia in più.

Il governo provvede a finanziare la metà dei costi incorsi nell’obbedire a quest’obbligo. La metafora, però, resta calzante: Lee voleva essere considerato il Capo giardiniere, che avrebbe portato «una nazione del terzo mondo ad essere parte del primo», come scrisse nella sua autobiografia e «seminare un giardino di civiltà in una terra indisciplinata».

Domare i tropici

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Nel 2011 il figlio di Lee Kwan Yu, il primo ministro Lee Hsien Long, ribaltò la frase celebre del padre dichiarando che Singapore non sarebbe stata una città giardino, ma un giardino con una città al suo interno.

Fu sotto il secondo Lee che venne creato il Garden by the Bay, con la sua visione per una natura tecnologica (è costato quasi 700 milioni di euro, e richiede circa 34 milioni di euro l’anno per il suo mantenimento) ma anche con rigidità tutte singaporiane: al suo interno ci sono quattro giardini che devono rappresentare le etnie che abitano la città, ovvero cinesi, malesi e indiani – con un giardino “coloniale” che forse sta per gli eurasiatici, o per i caucasici?

La simbologia è un po’ forzata, perché per quanto si possa utilizzare il bambù e le rocce inusuali per rappresentare i cinesi, o galangal e pandang per i malesi, ficus e palme palmyra per gli indiani, e piante redditizie, come gli alberi della gomma e le palme da olio, per il giardino coloniale – ecco che Singapore spicca nel cuore dell’Asia per questo tentativo senz’altro bello e piacevole di ordinare la natura, domare i tropici, e suddividere le etnie, creando grate e reticolati comunicanti ma incapaci di fondersi. I cliché si stampano addosso a queste descrizioni delle “razze”: il giardino cinese è il più pittoresco.

Quello indiano, il più creativo. Il più gustoso è quello malese, con tante spezie, e quello coloniale il più fragrante – spazzando sotto al muschio discussioni meno morbide di cosa sia stato il colonialismo anche a queste latitudini.

Una natura innaturale

Con Singapore, anche in questa occasione, descrivere le decisioni governative prese ed imposte con caratteristico paternalismo diventa uno strano esercizio: forse è una natura un po’ innaturale, così curata e pianificata, ma ci si cammina in mezzo rilassati e con la consapevolezza che tanto verde aiuta a controllare la temperatura e ombreggia anche le giornate più soffocanti.

Forse si è persa la possibilità di vedere che cosa avrebbero prodotto tentativi di rewilding lasciati interamente nelle mani della natura – ma quale altra metropoli è così botanicamente ricca? E il pensiero critico e analitico si stiracchia ed assopisce sotto l’ombra di un grande albero della pioggia.

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