La Turchia è di nuovo al centro della scena geopolitica: il presidente Recep Tayyip Erdogan ha gettato tutto il peso della sua influenza a favore degli azeri in guerra con gli armeni per il Nagorno-Karabakh, terra di confine nel cuore del Caucaso. È l’ultima sfida del “sultano”: l’appellativo, affibbiatogli da numerosi media, sembra proprio addirsi a Erdogan.

Sultano evoca immagini esotiche di harem e di arbitrio, di dissolutezza e di congiure, ma in sé, in arabo e di conseguenza in turco, vuol dire semplicemente “colui che detiene il potere”. E certamente Erdogan di potere ne gestisce parecchio. Però, a prescindere dall’esotismo che maschera la realtà e impedisce di comprenderla, il termine sultano è particolarmente appropriato perché rimanda al supremo sovrano ottomano, il vertice di un impero durato oltre sei secoli, dagli inizi del Trecento fino alla fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918 – un impero che, tra le altre terre, inglobava anche l’Armenia. Ed Erdogan si è esplicitamente proposto come nuovo erede dell’ottomanismo.

L’impero ottomano è stato il più formidabile avversario dell’Europa moderna che ha cercato di piegare in più occasioni. Basterà ricordare alcune date: 1453 conquista di Costantinopoli da parte di Mehmet II; 1683 fallito assedio di Vienna e inizio del reflusso della potenza turca. Nel 1922-1924 l’abolizione del califfato da parte di Mustafa Kemal Ataturk portava alla proclamazione della repubblica.

In nome degli ottomani e dell'islam

Erdogan ha rivendicato una esplicita continuità tra il suo potere e l’eredità ottomana, di cui gli ultimi corifei erano stati i Giovani Turchi, governanti l’impero durante la Prima Guerra mondiale e repressori del nazionalismo armeno. L’impero era stato a lungo il simbolo dell’unità dei popoli musulmani sunniti, e per secoli si era presentato come vindice dell’islam. Erdogan ha voluto raccogliere in sé entrambe queste eredità, ma è necessario spiegare perché abbia avuto successo e come la religione sia diventata uno strumento per il nuovo “sultanato”.

la rivoluzione di Ataturk, così a lungo esaltata per  il suo iper-laicismo, in realtà era un duro regime dittatoriale e verticistico. Lo stesso tentativo  di abolire la religione si sgonfiò  presto.

Già negli anni Cinquanta cominciarono a riaprire le scuole religiose e non molto più tardi a formarsi i primi partiti islamici di cui l’AKP di Erdogan è stato l’erede. Per molti decenni la politica turca ha visto l’alternarsi di governi democratici e di dittature militari, non raramente impegnate, in nome del laicismo di Ataturk, a reprimere le formazioni religiose.

La porta chiusa

Il secondo fattore da tenere presente è, come al solito in Medio Oriente, la scarsa lungimiranza per non dire la miopia della politica occidentale. Abituata a dividere in modo manicheo il mondo tra amici e nemici in proporzione a quanto si allineano ai nostri “valori universali”, anche a prezzo di condotte contraddittorie, l’Europa ha a lungo sostenuto, o perlomeno non ha criticato, i regimi militari e la loro autocrazia.

Non è un caso che la Turchia, a causa della potenza del suo esercito, sia stata presto accolta nella Nato già  nel 1952: la capacità militare turca, infatti, opportunamente sostenuta da un sistema istituzionale che comunque doveva rendere conto a un esercito non certo schierato col socialismo sovietico, si integrava perfettamente nel quadro Occidentale della guerra fredda.

Quando però la Turchia, già prima di Erdogan ma ancora nei primi anni del potere di Erdogan, ha bussato insistentemente  alla porta della Unione europea per essere accolta come membro a pieno titolo dell’organizzazione euro-occidentale, è stata sempre respinta con motivazioni del tutto pretestuose e ideologiche. In buona sostanza, pur mascherato con la scusa ufficiale dell’economia e del rispetto dei diritti umani, si trattava del  pregiudizio che un paese islamico non poteva pretendere di trovare posto nell’Europa dalle radici cristiano-democratiche.

A un certo punto, e probabilmente non aspettava altro, Erdogan ha perso la pazienza e ha scelto di cambiare rotta nelle relazioni internazionali. Da paese europeo in pectore, la Turchia è stata indotta a riscoprire le sue radici di potenza islamica e asiatica non casualmente diventando interlocutrice della Russia di Putin.

Questo riorientamento della strategia politica turca aveva, da una parte, bisogno di una ideologia legittimizzante, che ovviamente non poteva più essere il laicismo di Ataturk e dei militari, ma l’islam. D’altra parte, ad aiutare la strategia di Erdogan è intervenuta la crisi delle primavere arabe e il loro fallimento.

L’islam di Erdogan si alimentava alle origini a un orizzonte teorico che grosso modo può essere definito della Fratellanza musulmana: un islam conservatore, certo, ma che, per lo meno sul piano teorico e organizzativo, cercava e rivendicava origini popolari, dal basso.

Imprese islamizzate

A facilitare il progetto di Erdogan è intervenuto per molti anni l’appoggio della islamizzante Confindustria turca, per cui il “sultano” ha potuto giovarsi di un blocco sociale-produttivo che gli ha consentito di vincere ripetutamente le competizioni elettorali. Naturalmente, in questo contesto, si può bensì parlare di strumentalizzazione della religione, ma bisogna guardarsi dalle semplificazioni.

La valenza politica della religione non è solo islamica, ma anche ebraica e cristiana: è una caratteristica inerente a tutti e tre i monoteismi. Nel caso di Erdogan e della Turchia questo è divenuto più evidente perché Erdogan occupava e occupa direttamente il potere brandendo la religione come elemento diretto di legittimazione.

 Alla luce di una siffatta nuova visione delle cose, deve essere balzata subito alla mente di Erdogan l’idea di poter svolgere un ruolo decisivo nel caos lasciato dal fallimento delle primavere arabe (2011 – 2013) – caos che non si sbaglierà a ritenere propizio anche per conflitti come quello del Nagorno-Karabakh.

Ricordiamo che, seppure abbiano risvegliato coscienze assopite, le primavere arabe hanno visto indebolirsi o addirittura disgregarsi ben cinque stati: Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen.  Nel conseguente marasma si sono acuite le tensioni geopolitiche: Stati Uniti contro Russia; Arabia Saudita contro Iran; con Israele a svolgere la consueta funzione destabilizzante del terzo incomodo.

Potenza regionale 

Ora, di riflesso, nel disequilibrio geopolitico, Azerbaijan contro Armenia. Erdogan ha nutrito e nutre la speranza di poter proporre il suo paese come quarta potenza regionale (a fianco cioè di Arabia Saudita, Iran e Israele), e, nei primi tempi, si è  illuso addirittura di farne il leader del mondo sunnita. Naturalmente si tratta di speranze difficili da concretizzare, poiché le rivalse tra arabi e turchi, dopo la caduta dell’impero ottomano, sono rimaste vive, e mai gli arabi si radunerebbero dietro a una bandiera turca.

Erdogan ha avuto la possibilità di far sentire il peso della Turchia nelle situazioni più disgregate, quella siriana e quella libica. Qui la religione c’entra poco o nulla: quelli che contano, ripetiamo, sono i (dis)equilibri regionali in cui, grazie all’efficienza del suo apparato militare, il paese del “sultano” ha  una potenziale energia da sfruttare.

 Erdogan non ha le chiavi del Medio Oriente, né tanto meno quelle dell’islam. Ma, da una parte, le nuove facoltà teologiche delle università turche, aperte ormai dovunque da Istanbul a Konya, da Ankara a Smirne, sono quanto di più attivo e progredito esista nel mondo sunnita, facendo ampio e consapevole uso di tutti gli strumenti critici della modernità.

D’altra parte i tentativi occidentali di dare una spallata al regime islamizzante, con l’appoggio incondizionato alla minoranza curda (la cui simpatia presso i non curdi è da noi largamente sovrastimata) o con i palesi tentativi di mettere in ulteriore crisi la ex fiorente economia turca, sono destinati ad attizzare piuttosto che a spegnere il nazionalismo turco, uno dei più accesi di tutta la regione.

La destabilizzazione della Turchia, per quanto Erdogan possa essere, e lo è, un autocrate, aggiungerebbe altro fuoco a un Medio Oriente già fin troppo incendiato.

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