«Quando gli israeliani hanno cominciato l’attacco lunedì hanno subito occupato il Freedom Theatre, che è il primo palazzo entrando nel campo», dice Mustafà Sheta, direttore della più famosa istituzione culturale locale, nota anche per aver sviluppato e promosso il concetto di “resistenza culturale” all’occupazione attraverso inziative e spettacoli.

Parla su WhatsApp il giorno dopo il ritiro delle truppe israeliane da Jenin, al termine della più grande invasione del campo dopo quella famigerata del 2002: bilancio finale 12 morti palestinesi, uno israeliano. «Hanno distrutto il palco facendone una base per i loro mezzi militari. La sala delle esibizioni è divenuta un centro per le detenzioni, un capovolgimento di quanto ha rappresentato negli anni. Io mi trovavo a casa a Jenin, cioè fuori dal campo profughi annesso alla cittadina».

E ancora: «Hanno bombardato e distrutto le porte, rotto vetri», continua Sheta. «La strada davanti al Freedom Theatre è stata come aperta dai bulldozer militari, che ne hanno frantumato l’asfalto. È successo anche altrove nel campo ed è un metodo che ha un forte impatto sulle infrastrutture [di distribuzione di acqua ed elettricità]».

Le strade sventrate

Le strade divelte del loro asfalto, scardinato dai mezzi corazzati, trasformano la cittadina bollata come centro della militanza palestinese in Cisgiordania in un labirinto di sterrati coperti di pozzanghere e fango, con ai lati le lastre di cemento spezzato. Il motivo: sventrare eventuali esplosivi nascosti.

Sulla via del “Freedom Theatre” si vedono anche altri segni del modus operandi israeliano. Su una casa davanti al teatro ci sono due piccoli buchi scavati nel muro: servivano ai cecchini dello stato ebraico per sparare senza esporsi alle finestre del palazzo, rendendosi così possibili bersagli. Ma ancora più impressionanti sono le foto dei buchi a grandezza d’uomo fatti nei muri – compresi quelli della guest house del teatro – per avanzare senza uscire allo scoperto. «Tante case e anche tante automobili sono state distrutte nel quartiere», dice Sheta.

Sicurezza a tutti i costi

Tutelare la sicurezza dei soldati anche a costo di provocare una distruzione indicibile, e spesso inutile: è la filosofia già sperimentata durante l’assedio della seconda intifada vent’anni fa (Jenin, Jenin, il documentario di Mohammed Bakri, propone notevoli immagini di repertorio di quell’offensiva). E che spiega – insieme a fattori di intelligence e tecnologia – come sia possibile invadere un terreno ostile popolato da centinaia di miliziani armati senza torcersi neppure un capello. Almeno fino a un istante dal fischio finale.

A ritiro in corso, infatti, è rimasto ucciso il ventitreenne soldato David Yehuda Yitzhak, residente dell’insediamento israeliano di Beit El. L’esercito israeliano sta conducendo un’indagine sulla dinamica della sua morte – era appostato in una casa palestinese per coprire la ritirata dei commilitoni dal campo, quando potrebbe essere stato colpito da fuoco amico.

La giornata della fine delle operazioni è anche stata segnata dal rituale scambio di colpi con Gaza: cinque razzi sono stati lanciati dai miliziani contro il sud di Israele, provocando la rappresaglia dei jet israeliani. Intercettati dal formidabile sistema di difesa Iron dome, i razzi non hanno provocato danni salvo attraverso dei detriti piovuti su delle case della cittadina frontaliera di Sderot.

Coinvolti anche i samaritani

Sempre mercoledì ci sono finiti di mezzo anche i samaritani, una comunità che parla arabo e popola una collina fra la città palestinese di Nablus e l'insediamento israeliano di Har Braha (oltre ad essere presente a Holon, in periferia di Tel Aviv).

Sono poche centinaia di persone, parlano arabo e hanno cittadinanza israeliana, vivono a metà fra israeliani e palestinesi e si propongono come "ponte". Da loro vanno i palestinesi a comprare bevande alcoliche (a Nablus, città conservatrice, l’alcol non si vende per motivi religiosi: le auto si mettono in fila al cancello dei samaritani ogni sabato aspettando che finisca lo shabbat).

Gli israeliani frequentano la comunità e considerano i samaritani parte della loro famiglia allargata. Ebbene ieri anche in questo piccolo limbo, o oasi di incontro, c’è stato un attentato: una sparatoria da un veicolo palestinese nella direzione di una macchina della polizia stazionata davanti al negozio.

Il domani del teatro

«Sono giorni molto duri, molto difficili», commenta di nuovo Mustafà Sheta, a cui ora tocca rimettere in sesto la struttura del Freedom Theatre. Fondato da Juliano Mer Khamis, un artista ebreo-israeliano per parte di madre e cristiano arabo-israeliano per parte di padre, il teatro nato nel 2006 può almeno contare sull’apprezzamento di tanti osservatori del conflitto a livello internazionale.

Mer Khamis, che aveva servito nell’esercito israeliano per poi divenire un radicale attivista filo-palestinese, è stato ucciso da dei sicari di fronte al teatro nel 2011, in un delitto che ad oggi rimane senza colpevoli. Era stato lui a promuovere il concetto di resistenza “culturale” che ha reso celebre, nel suo piccolo, il teatro. Ma non abbastanza da procuragli il rispetto delle forze israeliane.

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