La contesa sull’immigrazione è forse il tema più caldo della politica interna statunitense. Dalla soluzione di questo nodo, che passerà quasi certamente per un forte restringimento delle attuali politiche migratorie, dipendono anche gli aiuti militari da destinare agli alleati di Ucraina, Israele e Taiwan.

Un pacchetto complessivo da 106 miliardi di dollari appeso dunque alla comprensione di cosa si debba fare per fermare l’afflusso di migranti dal Messico. Fin qui la situazione al Congresso. Se ci allontaniamo da Washington c’è un’altra crisi e gli attori sono lo stato del Texas, saldamente governato dal governatore ultraconservatore Greg Abbott, e il governo federale al cui vertice c’è il presidente Joe Biden.

Tutto è partito da una decisione del Texas di piazzare una barriera di filo spinato che impedisce agli agenti della polizia federale di frontiera di accedere a una parte di confine dove normalmente i migranti entrano negli Stati Uniti, di fatto avocando ai poteri statali il controllo del confine e lasciando quindi morire quelle persone che tentano illegalmente di entrare nelle acque del fiume Eagle.

Il motivo di questa scelta è, secondo le autorità texane, quello di proteggere i cittadini da una “invasione”, e, siccome le politiche dei dem non sarebbero sufficientemente “dure” come ai tempi della presidenza di Donald Trump, bisogna onorare la carta fondamentale del Texas che impone allo stato di «proteggere i propri cittadini».

La sentenza

Il governo federale ha fatto ricorso alla Corte suprema, che ha il dovere di risolvere celermente le contese tra soggetti locali e autorità centrale. A sorpresa, la sentenza Department of Homeland Security v. Texas di lunedì scorso ha dato ragione al governo federale, autorizzandolo a rimuovere la barriera illegale.

A dare ragione alla Casa Bianca sono state le tre giudici progressiste, a cui si sono uniti sia il giudice capo John Roberts, nominato da George W. Bush nel 2005, sia Amy Coney Barrett, nominata da Donald Trump nel 2020.

Caso chiuso? No, il Texas continua a rifiutarsi di applicare l’ordinanza, appellandosi al dissenso di quattro giudici conservatori che avrebbero invece preferito consentire alla guardia nazionale texana di gestire i controlli.

Una posizione che dal punto di vista giuridico appare quantomeno controversa: secondo la Costituzione americana, tra le prerogative delle autorità federali ci sono quelle di imporre i «dazi» e «il commercio con l’estero».

Quindi, implicitamente, avrebbe i poteri anche di decidere chi entra nel paese o meno. Ci sono due precedenti molto chiari al riguardo: una sentenza recente, l’Arizona v. United States del 2012, affermava che «i paesi esteri dovrebbero poter comunicare con un unico soggetto, il governo sovrano federale, e non con cinquanta stati separati, per le questioni che riguardano i loro cittadini». Quindi non ci dovrebbe essere discussione.

Il governo texano però ha contrattaccato rimarcando che «c’è un’invasione in corso» e quindi può avocare a sé i poteri di emergenza per fronteggiare la questione. Una decisione ancora più dubbia dal punto di vista costituzionale, dato che uno degli autori della Costituzione, il futuro presidente James Madison, in un documento del 1800 aveva definito molto chiaramente cosa costituisce un’invasione: lo stato di guerra.

Non ci sono altri motivi per cui uno stato possa espellere cittadini stranieri senza l’approvazione di Washington.

La scommessa del Texas, in realtà, è più brutale: crede che tutto sommato la Corte suprema non emetterà una seconda ordinanza per costringere lo stato a togliere la barriera e a lasciar lavorare la polizia di frontiera nazionale.

Anzi, si vuole rilanciare: c’è un altro caso in discussione, che riguarda la possibilità dei giudici statali scelti dall’attuale maggioranza di destra di emettere delle ordinanze di espulsione. Un’altra sfida al governo federale che cesserebbe all’istante, qualora Donald Trump tornasse alla Casa Bianca con politiche più gradite ai repubblicani dello stato della stella solitaria.

© Riproduzione riservata