«Sì, certo, le azioni militari sono sempre una tragedia e, naturalmente, dovremmo pensare a come fermare questa tragedia. A proposito, la Russia non ha mai rifiutato i colloqui di pace con l’Ucraina».

Con queste parole, espresse in videoconferenza alla riunione del G20, convocata da Narendra Modi, il primo ministro indiano, Vladimir Putin non ha fatto altro che rimarcare una narrazione che il Cremlino ha sempre diffuso sin dai primi mesi del conflitto. Le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi, a Istanbul a fine marzo 2022, avevano raggiunto un raccordo su due punti chiave: la neutralità dell’Ucraina e la fine della guerra dopo l’avvenuto ritiro delle truppe russe da Kiev.

Tuttavia, il presidente Putin ha sempre sostenuto che questo accordo fosse stato stracciato e gettato «nella pattumiera della storia» dagli ucraini e, in particolare, dal suo presidente Volodomyr Zelensky che aveva firmato un decreto che vieta tuttora qualsiasi negoziato.

In una situazione di oggettiva debolezza dell’esercito ucraino conviene veramente a Putin avviare un tavolo di negoziazione in questa fase del conflitto? In un’ottica strategica e militare nella quale la Russia è attualmente in una posizione di forza rispetto all’Ucraina, la risposta sarebbe affermativa.

Tuttavia, continuare a pensare che Putin agisca come farebbe qualunque leader o generale occidentale può essere decisamente fuorviante anche in questa situazione. Fallita la cosiddetta “operazione militare speciale”, Putin ha cercato alleati che lo aiutassero ad ammortizzare gli annunciati (ma ancora attesi) effetti devastanti delle sanzioni sull’economia.

La realtà, come in altri casi nel mondo, ha dimostrato che il “mercato parallelo” di tecnologie e di prodotti, capace di sopperire alle carenze della domanda interna, ha garantito la resilienza economica della Russia.

Ormai anche fonti autorevoli come il Fmi e la Commissione Europea stimano in rialzo le previsioni sul Pil russo con un aumento dell’1,6 per cento annuo nel 2024 e nel 2025. Il Cremlino ha, inoltre, stilato accordi politici e commerciali con alcuni paesi (in primis la Corea del Nord) che, sulla base di un do ut des, hanno previsto anche una ingente fornitura di armi e munizioni di cui, invece, l’Ucraina è deficitaria.

La Russia è in economia di guerra e la valida governatrice della Banca centrale sta cercando di controllare l’aumento dei prezzi, dell’inflazione e il crollo del rublo.

Certo, la situazione economica russa “è grave, ma non è seria” a tal punto da prevedere un indebolimento della struttura di potere nel medio periodo. Il sistema putiniano ha retto anche contro i tentativi di ammutinamento o di lotta interna tra le fazioni al potere e si appresta ad organizzare le elezioni presidenziali del 15-17 marzo nelle quali Putin sarà rieletto per la quinta volta.

Questo breve quadro fornisce alcuni elementi di riflessione e conferma alcune analisi che abbiamo scritto dal marzo 2022.

La forza della Russia

La prima riflessione è che ora a Putin non conviene andare ai negoziati perché la situazione sul campo di battaglia è in una fase di stallo, dovuta essenzialmente all’arrivo dell’inverno e alla difficoltà degli eserciti di avanzare o arretrare.

Questo non impedisce alla Russia di continuare a bombardare, di puntare sul peggioramento del morale dell’esercito e degli ucraini e aspettare la primavera per imprimere una controffensiva russa.

Risolto la questione della sua rielezione con le elezioni presidenziali del 15-17 marzo 2024, Putin potrebbe, infatti, decidere di sferzare un duro attacco per conquistare altre città, - soprattutto se l’obiettivo fosse estendere il proprio dominio sino alla Transnistria - approfittando di un disimpegno occidentale e delle difficoltà oggettive che Zelensky sta affrontando anche nel reperire nuovi soldati.

La seconda riflessione pone due domande essenziali. Aver parlato all’inizio della guerra di un tracollo economico, di una rivolta della popolazione russa, di una destituzione o morte improvvisa di Putin (oltre alle presunte malattie e al ruolo dei sosia), di un’obsolescenza dei carri armati, della fine delle munizioni e della sconfitta finale della Russia ha avuto come unico fine legittimare agli occhi dell’opinione pubblica una guerra occidentale per procura per sconfiggere e destabilizzare la Russia? Oppure è stato un’errata valutazione politica che non ha tenuto conto delle possibili conseguenze negative per l’Ucraina?

Sia chiaro. Era corretto intervenire immediatamente a sostegno di Kiev per evitare la capitolazione totale nelle prime settimane del conflitto, ma era lecito anche ponderare attentamente in che termini, per quanto tempo e con quale obiettivo finale realistico aiutare l’Ucraina.

La disparità nel numero di soldati, nei mezzi impiegati e la minaccia nucleare erano già indicatori sufficienti per temere una sconfitta dell’Ucraina con un suo eventuale smembramento, decine di migliaia di morti e rafforzare la convinzione al Cremlino che le dispute politiche possano essere affrontate con successo solo attraverso una politica aggressiva verso gli altri Stati.

Le contraddizioni dell’occidente

Dopo 644 giorni di guerra, la verità è che il coraggio ammirevole del popolo ucraino nel resistere contro l’invasore si è scontrato con le “contraddizioni dell’occidente”. E su questo Putin ha sempre contato: portare avanti una guerra di logoramento del mondo occidentale.

Il conflitto in Medio Oriente sta mettendo a dura prova l’amministrazione presidenziale americana impegnata nella difficile rielezione del presidente Joe Biden e sta creando una “tempesta perfetta” che il Cremlino intende sfruttare a proprio vantaggio. Dopo la fallimentare controffensiva ucraina estiva, presentata agli occhi dell’opinione pubblica internazionale come la probabile vittoria dell’Ucraina sull’invasore, l’esercito russo ha attuato una strategia difensiva e di guerra di trincea che ha raggiunto uno scopo preciso: una ingente perdita di soldati ucraini e una irrisoria percentuale di territorio recuperato.

Anche tra le fila dell’esercito russo si possono contare numerose perdite, ma Putin, a differenza di Zelensky, può ancora ricorrere alle mobilitazioni parziali, soprattutto dopo l’appuntamento elettorale di marzo. Il presidente ucraino, invece, sta valutando di mobilitare quei pochi soldati più giovani rimasti in Ucraina da impiegare come operatori di droni o per affiancare le reclute più anziane.

E così, tra le pagine del New York Times, del Financial Times, dell’Economist e di The Guardian si moltiplicano gli articoli di analisti che sostengono la necessità di porre fine alla guerra in Ucraina a qualunque costo.

A rafforzare questa ipotesi ci sono anche le recenti dichiarazioni di Davyd Arachamija, deputato del parlamento ucraino e capo dei negoziatori ucraini nel 2022, che confermano la versione russa, sottolineando che fu l’ex primo ministro britannico, Boris Johnson, a suggerire al governo ucraino di non trattare con la Russia per prepararsi al combattimento.

Dello stesso avviso è anche Oleksij Arestovyč l’ex consigliere presidenziale e ora avversario politico di Zelensky che accusa l’occidente di aver ingannato l’Ucraina per aver promesso un «reale sostegno per condurre una vera, grande guerra» che, nei fatti, non ha mai fornito.

Sarà compito degli storici verificare in futuro la veridicità o meno di queste affermazioni, ma non vi è dubbio che Zelensky abbia sempre chiesto quelle armi necessarie e mai pervenute che gli consentissero di sconfiggere la Russia di Putin. il risultato è sotto i nostri occhi.

Il presidente ucraino spera ancora nell’aiuto degli americani, ma è travolto da polemiche interne che lo indeboliscono politicamente. L’appuntamento elettorale delle presidenziali americane 2024 sta diventando il D-Day della guerra in Ucraina con lo spettro del disimpegno americano.

No, non è antiamericanismo, ma la semplice constatazione, tipica delle teorie egemoniche delle relazioni internazionali, che una super potenza, a lungo andare, non può sostenere risorse militari, economiche e politiche su diversi fronti: il rischio è l’overstretching degli impegni.

È il principio della “solvibilità strategica” (l’equilibrio tra risorse di potere e impegni) che qualunque docente spiega nelle aule universitarie, ma omette nei salotti televisivi per sostenere la tesi della vittoria ucraina.

La dicotomia sconfitta/vittoria serve solamente ad alimentare speranze e prolungare la sofferenza del popolo ucraino se non ci sarà un intervento più determinato come il coinvolgimento della Nato che, però, nessuno vuole.

Quando Putin deciderà di sedersi al tavolo dei negoziati, perché prima o poi dovrà consegnare una parvenza di vittoria al popolo russo, toccherà all’Europa più che agli Stati Uniti, avere una visione strategica dei rapporti futuri con il “criminale russo”, imparando dagli errori del passato che hanno co-responsabilmente alimentato le tensioni fra Russia e Ucraina.

l congelamento del conflitto non è un’opzione sostenibile per tutti e significherebbe non solo aver ingannato gli ucraini, ma avere tradito anche i nostri valori occidentali. E, allora, erano putinisti quelli che si preoccupavano delle conseguenze nefaste per l’Ucraina o chi ha fatto il gioco di Putin sostenendo la guerra sino alla vittoria?

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