A inizio giugno il presidente Joe Biden e lo speaker della Camera Kevin McCarthy avevano faticosamente concordato un budget pluriennale con cui rifinanziare il governo federale fino al gennaio 2025: attraverso l’approvazione concordata di una serie di disegni di legge specifici con cui finanziare le varie voci di spesa con una scansione rigorosa.

Siamo a fine settembre e quell’accordo è già saltato per ragioni che difficilmente sono economiche e quindi, qualora entro domenica a mezzanotte, le sei del pomeriggio in Italia, non si trovi un nuovo patto per l’approvazione celere di nuovi provvedimenti che finanzino il funzionamento federale anche temporaneamente, il governo federale dovrà limitare le sue attività ai servizi essenziali, quali ad esempio i controlli di sicurezza negli aeroporti, le attività militari nelle zone di guerra e i pattugliamenti della guardia di frontiera al confine con il Messico.

Per il resto molti impiegati federali hanno già ricevuto l’avviso di non presentarsi al lavoro lunedì. Perché probabilmente non ci saranno i fondi necessari per far funzionare musei, centri visitatori dei parchi nazionali e persino alcune attività non essenziali delle sedi diplomatiche all’estero.

La contesa

Sarebbe la quinta volta nella storia che il governo federale deve chiudere parzialmente i battenti: nel 1995 e nel 1996 lo speaker della Camera repubblicano Newt Gingrich andò allo scontro con il presidente dem Bill Clinton chiedendo drastici tagli alla spesa sociale. Nel 2013, invece, l’ala conservatrice dei repubblicani al Senato tentò di tagliare i fondi al cosiddetto Obamacare, il piano sanitario fortemente voluto dal presidente Barack Obama basato sull’obbligo individuale di assicurazione sanitaria, causando quindi una nuova chiusura.

Tra il 22 dicembre 2018 e il 25 gennaio 2019, invece, il governo rimase fermo a causa dell’opposizione dei democratici, allora maggioritari alla Camera dei Rappresentanti, al finanziamento della costruzione del muro anti-migranti al confine con il Messico. Oggi, invece?

Non ci sono ragioni economiche precise. Persino uno dei moderni padri dei vari movimenti antitasse, il lobbista Grover Norquist, noto quale tormento dei deputati repubblicani ritenuti “troppo moderati” nei confronti “della spesa fuori controllo” proposta dai vari presidenti democratici a partire dagli anni ’90, ha dichiarato in un’intervista con il Washington Post che non riesce a capire cosa vogliano i deputati del cosiddetto Freedom Caucus.

Già, perché alcuni membri di questo schieramento ipertrumpiano hanno messo tantissima carne al fuoco: la fine degli aiuti militari all’Ucraina, un controllo più duro nei confronti dei migranti clandestini, un cambio dei regolamenti della Camera dei Rappresentanti e gli immancabili tagli alla spesa sociale. Tante cose per cui non c’è nemmeno lontanamente un consenso bipartisan in vista.

In altre circostanze, come anche lo scorso giugno, gli opposti leader si mettono d’accordo scontentando le rispettive fazioni radicali. Questa volta però non è possibile, perché è la posizione dello stesso speaker McCarthy in pericolo: sarebbe costretto a dimettersi in virtù dell’accordo per la sua elezione trovato lo scorso gennaio.

Anche in quel caso, c’erano delle condizioni capestro imposte dai fedelissimi dell’ex presidente Trump per tenere McCarthy sotto scacco. Appare dunque probabile che i suoi giorni ai vertici di uno dei rami del Congresso stiano per finire, dato che gli stessi dem hanno risolutamente negato la possibilità di salvare McCarthy votando a suo favore in un nuovo giro di consultazioni.

Secondo alcuni retroscena, invece, si penserebbe a un nuovo presidente dell’assemblea a interim, nella persona di un moderato quale potrebbe essere il deputato del Nebraska Don Bacon, noto per aver votato alcuni provvedimenti economici proposti dal presidente Joe Biden nel primo biennio.

Una ricostruzione possibile della vicenda è quella ipotizzata dal magazine online Politico: il deputato della Florida Matt Gaetz, fedelissimo dell’ex presidente, vuole la testa dello speaker da portare metaforicamente a Mar-a-Lago: McCarthy si sarebbe finora rifiutato di sostenere esplicitamente la ricandidatura dell’ex presidente Trump alle presidenziali del 2024 e qualora riuscisse nell’impresa, chiederebbe il sostegno per succedere a Ron DeSantis nel 2026 quale nuovo governatore della Florida. Un gioco di bassa cucina politica che però mette a rischio la tenuta di alcuni servizi, a seconda di quanto possano durare le chiusure delle agenzie federali.

A quel punto è possibile che alcuni repubblicani moderati rompano il vincolo di fedeltà al loro partito e decidano di votare un provvedimento legislativo che abbia i voti anche del Senato, dove anche il leader del Gop McConnell chiede a gran voce di rifinanziare in fretta le attività di tutto l’apparato governativo statunitense. Sempre che non ci sia un accordo dell’ultima ora.

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