“È morto a casa” è una frase che si legge spesso nei necrologi e che a volte cela storie complesse da raccontare. È il caso di Jordan McGlashen, morto il 6 maggio del 2020, alla vigilia del suo trentanovesimo compleanno, nel suo appartamento di Ypsilanti, in Michigan. «Per comprendere la profondità della tragedia, il lettore ha bisogno della verità: è stata una overdose di droga», si legge in apertura di un lungo articolo scritto dal fratello minore Collin e pubblicato online.

La sua lettera è un tentativo di ricordare McGlashen al di là della depressione e della dipendenza con cui combatteva da vent’anni. Ma è anche un modo per parlare apertamente e senza vergogna di un problema che affligge gli Stati Uniti da decenni e che la pandemia di Covi-19 ha esacerbato in modo catastrofico: le morti per overdose, soprattutto causate dall’uso di oppiacei.

I numeri diffusi dal Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) mostrano una pandemia nella pandemia. Nel 2020 negli Stati Uniti sono morte più di 93mila persone per overdose, un numero mai visto prima che segna un incremento del 29 per cento rispetto all’anno precedente. Quasi due terzi dei decessi sono dovuti all’uso di oppiacei sintetici, in particolare il fentanyl, 50 volte più potente dell’eroina. Tuttavia, rivelano i dati, nel 2020 è aumentato anche l’uso di metanfetamine e cocaina. 

Effetti immediati e a lungo termine

«Gli Stati Uniti affrontano questa grande crisi già da tempo, ma è innegabile che la pandemia abbia avuto un forte impatto», spiega Brandon Marshall, professore associato di epidemiologia della Brown University, dove lavora per tracciare e studiare la diffusione dei casi di overdose nel paese.

Sebbene non ci siano prove sul fatto che la pandemia abbia provocato un aumento del numero di persone che ha cominciato ad assumere droghe illecite, è indubbio che abbia peggiorato le conseguenze per coloro che ne facevano uso già da prima. 

Marshall spiega che alcuni dei fattori generati o influenzati dalla diffusione del Covid19 hanno avuto un effetto immediato, altri sono destinati ad avere un impatto a lungo termine. Tra i primi ci sono l’improvvisa mancanza di accesso alle cure e ai programmi di sostegno che erano disponibili sul territorio, sebbene fossero già insufficienti e distribuiti non equamente.

Secondo dati raccolti a livello federale nel 2018, negli Stati Uniti ci sono più di 8 milioni di persone dai 12 anni in su che soffrono di disturbi legati all’uso di droghe illecite e di queste solo il 10 per cento ha accesso a cure adeguate. 

Inoltre, sottolinea Marshall, «l’isolamento sociale è stato un altro fattore determinante. La gente si è trovata ad assumere droghe in solitudine, senza aver intorno qualcuno che potesse intervenire in caso di overdose». L’isolamento, per chi consuma droga, è una condizione pericolosa anche in tempi “normali”.

Per questo i programmi di riduzione del rischio, molti dei quali sono stati sospesi, partono proprio dal principio di non lasciare solo chi fa uso di droghe, in certi casi virtuosi anche mettendo a disposizione ambienti sicuri per il consumo, monitorati da operatori sociali e sanitari. 

Mentre i programmi di sostegno, per quanto molto scarsi rispetto all’entità della crisi, possono eventualmente ripartire, ci sono effetti della pandemia legati a diseguaglianze strutturali che si prospettano ancora più duri da affrontare. «L’insicurezza lavorativa e l’instabilità abitativa, con l’aumento delle persone senzatetto, hanno certamente avuto il loro peso sulle morti di overdose del 2020 e temo che continueranno ad averlo per i prossimi anni», spiega Marshall. 

Anche Jordan McGlashen aveva da poco perso il lavoro. La sua storia è stata raccontata dal fratello in un modo così schietto da essere stata notata e citata dall’Associated Press. Tuttavia – come rivela un recente studio condotto da un team dell’università di Harvard – sono sempre più numerosi e diffusi i necrologi che parlano di tossicodipendenza in modo diretto e aperto, a riprova che la morte per overdose è un problema collettivo, di cui si sente l’esigenza di parlare.

Gli americani che ne sono vittime hanno i profili più diversi e c’è sempre meno spazio per stereotipi e stigma associati all’uso di droghe. 

L’iniziazione all’uso di oppiacei avviene spesso in modo poco consapevole e soprattutto legale, su prescrizione medica, anche a seguito di una banale operazione dentistica.

Fentanyl

Gli Stati Uniti, sottolinea Marshall, sono il più grande consumatore al mondo di antidolorifici a base di oppiacei, anche se i consumi a scopo medico sono diminuiti rispetto al picco del 2011, quando le case farmaceutiche spingevano senza criterio la produzione e distribuzione di rimedi come l’idrocodone, utilizzato anche per il trattamento della tosse, e l’ossicodone. L’uso del fentanyl è invece esploso negli ultimi anni.

Ne avevamo sentito parlare nel 2016, quando il cantante Prince, che soffriva di forti dolori all’anca, morì dopo aver assunto dosi eccessive di fentanyl. Si tratta di un farmaco utilizzato per operazioni chirurgiche o per trattamenti rivolti a malati terminali, come casi incurabili di cancro. Produce effetti simili a quelli della morfina ma è cento volte più potente.

È stato sintentizzato per la prima volta negli anni Sessanta e, come spiega Marshall, è particolarmente semplice ed economico da produrre. La preparazione non necessita nessun tipo di oppiaceo naturale, può quindi essere prodotto interamente in laboratorio.

L’effetto è così forte e rapido che ne bastano dosi minime, cosa che facilita la circolazione anche per vie illegali. Spesso viene tagliato con altre sostanze, come l’eroina e la cocaina. McGlashen è morto per una combinazione di fentanyl con eroina. 

In un paese dove più di 32 milioni di persone non hanno alcuna forma di assicurazione medica, l’abuso di forti antidolorifici non sorprende. Può bastare un braccio rotto per chi non può permettersi la fisioterapia. Per questo il picco di morti per overdose si manifesta come l’ennesimo sintomo di un sistema impregnato di discriminazioni e disuguaglianze.

Sebbene le morti per overdose continuino ad interessare soprattutto la popolazione bianca, negli ultimi anni stanno aumentando anche tra gli afroamericani, e anche in questo la pandemia ha peggiorato la situazione. «A causa del razzismo strutturale, il Covid-19 ha colpito in modo sproporzionato la comunità nera», spiega Marshall, «di conseguenza anche le morti per overdose sono aumentate». 

A prova di questo cita uno studio condotto a Philadelphia e pubblicato da Jama Network, un portale della American Medical Association, in cui si evidenzia come tra il 2019 e il 2020 si sia assistito ad un netto aumento di casi di overdose tra gli afroamericani più che tra i bianchi.

Un altro studio invece mostra come anche la distribuzione ed efficienza dei centri che offrono trattamenti rivolti a coloro che soffrono di dipendenza da oppioidi siano in qualche modo influenzati dalla segregazione dei territorio: sono infatti più facilmente accessibili da comunità prevalentemente bianche piuttosto che afroamericane o di minoranze etniche. 

«C’è bisogno di una più equa distribuzione delle risorse», sostiene Marshall. «L’unico modo per affrontare questa crisi è raggiungere chi sta male e offrire cure adeguate, e farlo il prima possibile». Nel caso di persone che subiscono discriminazioni anche al di là della dipendenza da droghe è ancora più difficile.

Politiche abitative e del lavoro

Alcuni hanno paura di parlare del loro problema perché temono conseguenze sulle loro vite già precarie sotto diversi punti di vista. Infatti, come spiega Marshall, una possibile soluzione a questa crisi deve necessariamente passare anche dalla lotta per il diritto all’abitazione, per la creazione di posti di lavoro che siano degni e in generale per una maggior attenzione ai problemi sociali.

«La mia speranza è che i fondi federali che sono stati stanziati a causa del Covid-19 per la casa e l’occupazione, possano avere effetti positivi anche sul fronte delle morti per overdose», sostiene. 

A livello federale l’amministrazione di Joe Biden sta implementando alcune iniziative, anche se con ritardi che hanno sollevato diverse critiche dalla sinistra più progressista. Il giorno prima che il Cdc pubblicasse i dati sulle morti di overdose, Biden ha nominato un medico, Rahul Gupta, alla guida dell'ufficio della Casa Bianca preposto alle politiche per il controllo sulla droga.

Gupta è stato infatti commissario per la salute pubblica del West Virginia, una zona particolarmente colpita dalla crisi per l’uso di oppioidi, dove ha implementato un programma per identificare le persone a rischio di overdose e offrire loro sostegno. La sua nomina deve ancora essere approvata dal  Congresso, e in ogni caso probabilmente non sarà confermata prima dell’autunno. 

Da un punto di vista più strettamente medico l’amministrazione ha anche rilanciato un programma già approvato dalla precedente governo di Donald Trump per diffondere l’uso di buprenorfina, un oppiaceo prodotto in laboratorio ma derivato dalla tebaina, una sostanza ricavata dall’oppio.

Viene utilizzato per contenere dolori acuti e come trattamento per la dipendenza da oppioidi, con effetti analgesici paragonabili a quelli del metadone, ma con meno controindicazioni.

In generale, come sottolinea Marshall, la questione è strettamente legata a così tanti aspetti della struttura sociale ed economica degli Stati Uniti che per risolverla davvero bisogna affrontarla su più fronti. Non per ultimo quello delle case farmaceutiche che producono e distribuiscono antidolorifici a base di oppioidi.

Diversi stati e governi locali si sono imbarcati, già da anni, in battaglie giudiziarie per chiedere alle grandi compagnie, come McKesson Corp, Johnson & Johnson e Purdue Pharma, di versare un totale di oltre 26 miliardi di dollari in risarcimenti per i danni provocati.

Molte delle cause sono ancora aperte, ma la complessa e ramificata vicenda legale ha già avuto conseguenze significative. Tra queste la bancarotta di Purdue Pharma, produttrice dell’OxyContin (antidolorifico a base di ossicodone). Al momento l'azienda sta negoziando i termini della bancarotta con i singoli stati, avendo trovato un accordo giù con una quindicina, mentre altri – come il West Virginia –  oppongono resistenza. E intanto le “morti in casa”continuano

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