Perché il governo indiano ha così paura di un gesuita di 84 anni malato di Parkinson da arrestarlo in piena notte e incarcerarlo da oltre otto mesi? È una domanda a cui nemmeno venerdì l’Alta corte ha dato risposta, dopo l’ennesimo ricorso dei legali di padre Stan Swamy, il gesuita indiano arrestato insieme a 15 attivisti lo scorso ottobre e tuttora internato nella prigione di Taloya, a Mumbai. 

Il 21 maggio i giudici hanno dato parere negativo sul suo rilascio, nonostante il peggioramento della sua salute: «La corte ha visionato il rapporto dei medici e poi ha parlato direttamente con Stan, collegatosi in videoconferenza» ha riferito l’avvocato gesuita padre Arockiasamy Santhanam. La prossima richiesta di rilascio su cauzione sarà valutata il 7 giugno: per ora il gesuita resta in carcere per presunti legami con i ribelli maoisti, seppure il religioso stesso si sia sempre detto estraneo, con una tesi peraltro avvalorata da un rapporto del Washington Post.

«In realtà, la cauzione si potrebbe ottenere per motivi di salute, visto che ci sono anche altri malati, ma finora l’opzione non è stata per nulla considerata» spiega a Domani padre Ashok Ohlol, gesuita della provincia indiana di Ranchi, e vicino a padre Swamy: «Da quando è stato arrestato, non ho avuto modo di parlare con lui» ammette con amarezza.

Il gesuita terrorista

Tutto è iniziato con l’incidente di Bhima Koregaon. Nel dicembre 2018, a pochi chilometri da Pune, i nativi indiani dalit e adivasi erano riuniti per celebrare i 200 anni dalla battaglia di Bhima Koregaon. Durante le manifestazioni, sono scoppiate alcune violenze inter-comunitarie che hanno coinvolto anche gli agenti locali.

La National investigation agency (Nia), che si occupa di stanare i presunti dissidenti del governo, ha cominciato a incarcerare attivisti e accademici bollandoli come terroristi sulla base di presunti legami con i guerriglieri maoisti ricostruiti per mezzo di file ritrovati nel laptop di un’attivista.

Le accuse sono state smontate nel 2018 dal Washington Post che ha dimostrato, con l’ausilio di una società di digital forensic, che il materiale ritenuto compromettente era stato inserito nel pc da un hacker. Le prove non hanno, però, fermato le autorità locali che, in nome della famigerata legge anti-terrorismo Unlawful activities prevention act, hanno dato inizio a detenzioni coatte senza alcuna possibilità di ricorso legale. A ottobre scorso è stata la volta di padre Swamy, preso sotto custodia nella notte, perché il suo nome figurava nella discutibile lista.

A nulla è valso l’appello di 2.500 indiani di spicco, tra accademici e politici, incluso l’ex capo di stato maggiore della Marina indiana, Laxminarayan Ramdas: «Il recente rapporto dell’Arsenal, preparato sulla base delle prove elettroniche raccolte dalla Nia, ha rivelato come dei documenti falsi siano stati inseriti nei computer degli accusati.

È inquietante che il tribunale abbia deciso di ignorare questa prova» recita la lettera. Da otto mesi il gesuita, affetto da Parkinson e parzialmente sordo, è relegato nel sovraffollato carcere di Taloya, in una città falcidiata dalla seconda ondata dalla pandemia di Covid-19.

A difesa dei nativi

Da sempre, in India l’impegno della Compagnia di Gesù è radicato nelle missioni sociali. Fin dagli anni Novanta, padre Swamy si è impegnato nell’accoglienza degli emarginati, come i nativi e gli espulsi dalle caste. La sua attività ha preso il nome di Bagaicha, una piccola comunità costellata di case in mattoni, che ancora accoglie le minoranze scartate dalla società indiana in rapida espansione, che è cieca alle istanze indipendentiste dei popoli tribali.

Nel tempo, l’attività dei gesuiti si è, così, intrecciata a quella degli attivisti, unico argine sociale agli svariati memorandum d’intesa stipulati fra i governi locali e le industrie minerarie, desiderose di mettere le mani nel sottosuolo delle foreste, ricche di minerali come alluminio e bauxite.

Lo sfruttamento del sottosuolo ha un costo sociale imponente perché induce allo spopolamento le popolazioni native come gli adivasi, emarginate da uno stato che, almeno sulla carta, dovrebbe tutelarli

Falsa tutela

Negli anni Duemila, con il susseguirsi delle operazioni di sgombero e strategic hamleting per raggruppare la popolazione nativa e liberare i villaggi nelle foreste alle società minerarie, padre Swamy ha unito l’accoglienza e l’integrazione degli emarginati alla formazione dei nativi perché avessero coscienza dei propri diritti, peraltro tutelati dalle leggi sullo sviluppo delle comunità rurali, come il Chota Nagpur Tenancy Act del 1906 o la norma sui diritti forestali del 2007.

Un compito per nulla facile: gli interessi per l’estrazione dei minerali nelle foreste sono così alti che la stessa Corte suprema indiana ha, negli anni, ratificato la politica coloniale che assegna ai governatori statali la gestione dei propri territori. Quest’operazione ha invalidato la storica sentenza “Samantha versus Andhra Pradesh”, con cui nel 1997 l’Alta corte dichiarò le terre di proprietà dei tribali, vietandone l’affitto a terzi, in nome del quinto programma della Costituzione indiana che preserva i terreni delle minoranze tribali.

Cinque anni dopo, però, nella sentenza “Balco Employees Union versus Union of India”, gli stessi giudici espressero riserve sulla precedente, perché «il contenzioso di pubblico interesse non può essere utilizzato come arma per decisioni economiche o finanziarie che sono state prese dal governo nell’esercizio del suo potere amministrativo». In altre parole, l’Alta corte negava di fatto il diritto di proprietà ai nativi, considerandoli occupanti abusivi.

Resistenza nelle foreste

Chi si opponeva agli espropri veniva, così, assimilato ai guerriglieri maoisti, cioè i rivoluzionari che, ispirandosi alla rivoluzione rurale di Mao Zedong, dagli anni Sessanta hanno iniziato una resistenza armata contro l’esercito governativo.

I conflitti a fuoco e le imboscate hanno preso negli anni la forma di vere e proprie esecuzioni sommarie, coinvolgendo anche le popolazioni native che, reclamando per sé l’indipendenza, venivano catalogate come unità terroristiche. Ancora oggi, in nome della lotta indefessa ai maoisti, i militari razziano villaggi, perpetrano violenze ed epurano le foreste, bollate aree “affette dai terroristi”.

Come ricorda Marina Forti ne Il cuore di tenebra dell’India (Mondadori, 2012), padre Swamy ha partecipato al primo sopralluogo delle foreste occupate dalle forze di sicurezza nelle operazioni militari governative Green Hunt e Anaconda.

Per arginare questa violenza cieca, il gesuita ha così cercato di richiamarsi ai principi della stessa costituzione indiana quale garanzia di protezione per i nativi. Eppure, ancora oggi il 47 per cento di coloro che vivono nelle zone rurali è povero. Parallelamente, i governi locali firmano centinaia di protocolli d’intesa con società industriali per la creazione di hub estrattivi, appena celati dietro centri di ricerca o sedi umanitarie dai nomi roboanti.

Chiesa silenziosa

Secondo il rapporto del think tank indipendente Land Rights Initiative, gli adivasi rappresentano l’otto per cento della popolazione indiana, ma hanno quattro volte in più la possibilità di essere sfollati a causa dello sviluppo industriale. In stati come il Jharkhand, dove i nativi sono sotto costante minaccia di sgombero, il 90 per cento è cattolico.

Ciononostante, in passato il gesuita ha criticato il silenzio della Chiesa cattolica di fronte alle razzie e alle violenze dei militari nei villaggi: «Se la chiesa resta zitta, prima o poi gli adivasi si rivolteranno. La chiesa deve rompere il silenzio e unirsi ai movimenti popolari, altrimenti avrà fallito la sua missione» ha tuonato il gesuita intervistato nel 2012 da Marina Forti. Oggi che è imprigionato e versa in condizioni precarie, la comunità locale sta facendo sentire la sua vicinanza: «C’è un team che si prende cura delle sue attività mentre è in prigione – ammette padre Ohlol, che aggiunge – finora non è arrivato alcun commento dalla Santa sede. Le informazioni sono arrivate certamente al preposito generale dei Gesuiti e, molto probabilmente, anche in Vaticano».

Nel suo breve video-intervento, l’anziano e debilitato gesuita venerdì ha ammesso un peggioramento delle sue condizioni, ma ha espresso le sue preoccupazioni per gli altri prigionieri, chiedendo di rimanere vicino alla sua comunità: «Stan è più preoccupato per gli altri che per sé stesso. Il suo è davvero uno spirito cristiano» ha detto commosso il suo legale.


Qui sotto il report diffuso dal Washington Post

 

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