Nel 1909 lo scrittore britannico E. M. Forster pubblicò un breve racconto distopico, La macchina si ferma. Vi descriveva un mondo inabitabile, ridotto in cenere, i cui abitanti erano costretti a vivere isolati, reclusi in celle sotterranee all’interno di una Macchina da cui erano soggiogati e dominati. Da lei dipendevano il sostentamento e ogni collegamento con il resto del mondo. I rapporti si mantenevano solo attraverso messaggi e ologrammi. Tutti avevano migliaia di contatti, ma nessuna relazione significativa. Il ritmo di vita frenetico, in costante connessione e adorazione della Macchina, impediva l’instaurarsi di qualsiasi legame umano profondo. Si trattava di una civiltà a cui il silenzio era sconosciuto; il brusio della Macchina ad accompagnare in sottofondo qualunque attività.

Ogni minima osservazione negativa veniva interpretata come una forma di ribellione «contro lo spirito del tempo». Una bestemmia. La macchina si ferma è stato scritto oltre un secolo fa, sessant’anni prima della nascita di internet, eppure sembra incredibilmente attuale. Come attuali sono i timori di Forster circa il futuro dell’umanità – e del pianeta – e circa le conseguenze derivanti dalla dipendenza umana dalla tecnologia. Oggi più che mai.

Le sue riflessioni a proposito del modo in cui l’uomo ha delegato la propria volontà individuale, della rinuncia alla libertà, dell’indifferenza, della frattura sociale o delle illimitate capacità di un sistema che nessuno è in grado di comprendere appieno ci riportano alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale contemporanee. Nel mondo attuale la Macchina di Forster è la rete delle reti, insieme ai big data e alle tecnologie cui ricorriamo per l’elaborazione di informazioni complesse (ciò che, erroneamente, definiamo «intelligenza artificiale»). Ma anche la Macchina versione aggiornata del XXI secolo si potrebbe bloccare. E in effetti è questa una preoccupazione latente all’interno della comunità tecnologica e tra chi si occupa di sicurezza informatica.

Non se, ma quando

Da anni, se non addirittura da decenni, e dagli ambiti più diversi c’è poi chi ammonisce del pericolo. Così, nel 2014, il filosofo e teorico della coscienza Daniel Dennett si rivolse al giornalista Toni García: «Internet crollerà e allora sperimenteremo ondate di panico». Da allora non riuscii a pensare ad altro. Iniziai a fare ricerche e mi resi conto che quell’ipotesi non solo era sensata, ma anche meritevole di essere raccontata e condivisa. Man mano che mi documentavo, aumentava il senso di urgenza… Poi arrivò il Covid-19, e cambiò (quasi) tutto. L’accelerazione imposta al processo di digitalizzazione e l’aumento della dipendenza tecnologica buttarono ulteriore benzina sul fuoco. Avevamo ignorato i segnali d’allarme e non eravamo preparati.

Questo brusco ritorno alla realtà rese ancora più lampante la necessità di prendere consapevolezza di ciò che potrebbe accadere se internet crollasse. Come per la pandemia, anche per il black-out online era solo questione di tempo. La domanda non è se avverrà, ma quando.

Ed ecco che allora accadde qualcosa. Il mondo si trovò ad assistere a varie prove su scala ridotta di quello che potrebbe succedere. L’ultimo e piú clamoroso incidente fu quello che, l’8 giugno 2021, mise ko migliaia di siti in tutto il mondo, inclusi quelli di Amazon, Twitter e Spotify, e di giornali come il País o il New York Times. A causare il crollo un errore informatico all’interno di Fastly, il fornitore di servizi cloud che ospita queste pagine web. Durò un’ora appena, un tempo comunque sufficiente per conquistare le prime pagine dei mezzi di informazione di tutto il mondo. Pochi mesi prima era toccato ad Amazon. Un problema con i server di Amazon Web Services (Aws) aveva provocato la chiusura anomala di numerosi siti e l’arresto dei dispositivi connessi come aspirapolvere e citofoni.

Nel dicembre 2020 la vittima fu Google: un errore dovuto allo spazio di archiviazione insufficiente nei suoi strumenti di autenticazione rese impossibile l’accesso a tutti i servizi, con la sola eccezione del motore di ricerca. Ciò causò gravi interruzioni che colpirono numerose aziende, impossibilitate a utilizzare la posta elettronica, i sistemi di messaggistica istantanea e le piattaforme di lavoro in tempo reale. Anche i dispositivi per uso domestico di Google (inclusi termostati, luci e rilevatori di fumo) e la piattaforma YouTube smisero di rispondere. Tutto questo per quarantacinque minuti, quanto durò il blocco.

Amazon e Google riuscirono a risolvere il problema in tempi piuttosto brevi, ma l’accaduto mostrò quanto sia facile provocare, anche involontariamente, un blackout di gran parte di internet. Questo a causa del fatto che i servizi online sono oggi nelle mani di pochissimi, i soliti noti. Con tutto ciò, l’idea – ormai non più cosí teorica – del crollo di internet, di quello che potrebbe comportare e tutti gli insegnamenti a proposito del nostro grado di dipendenza dalla connettività a livello individuale ma anche sociale, aziendale, governativo, amministrativo e di infrastrutture critiche, non era la sola cosa importante.

Impatto sociale

Ad avere importanza erano, soprattutto, le cause e le conseguenze di questa dipendenza; i rischi nell’ambito della sicurezza informatica; la crescente assuefazione generata dall’essere online e dallo smartphone come mezzo per restare connessi; la manipolazione e l’epidemia di disinformazione; l’odio incendiario diffuso attraverso i social network, e la frammentazione e la polarizzazione sociali e politiche; l’automazione dei processi discriminatori; l’uso autoritario dei dati personali e degli algoritmi basati sui big data; le nuove forme di lavoro precario vincolate a piattaforme e app digitali; l’utilizzo antidemocratico di internet; la flagrante disuguaglianza, la violazione dei diritti umani, la censura e la repressione; la privatizzazione della governance e i costi ambientali della digitalizzazione…

Tutto questo richiedeva una spiegazione, una narrazione che permettesse di coglierne il significato. ... Ma non solo. Come giornalista, da sempre sostengo il giornalismo d’inchiesta come strumento per il cambiamento, è il mio motto. Nell’ambito di ungiornalismo capace di proporre soluzioni, sono convinta che i mezzi di informazione, oltre a controllare il potere, denunciare la corruzione, promuovere un punto di vista critico e dare visibilità alle problematiche sociali, debbano fornire all’opinione pubblica anche possibili risposte e soluzioni. Un giornalismo costruttivo.

Per questo non potevo omettere dal mio racconto il fatto che, nel corso degli anni, siamo anche stati capaci di utilizzare questa grande invenzione per realizzare cose meravigliose che mai avremmo immaginato; che, nonostante tutto, internet, le piattaforme digitali, l’intelligenza artificiale e le altre tecnologie connesse si possono usare anche per scopi meritevoli; che farne l’opzione predefinita, ossia trasformare la tecnologia in un nostro alleato, è possibile. E dovevo raccontare come raggiungere questo obiettivo, o perlomeno, offrire alcune opzioni.

Presi la decisione di specializzarmi in giornalismo scientificoe tecnologico perché la scienza, la ricerca, sono sempre fonte di buone notizie: nuove scoperte in grado di migliorare la salute e approfondire la conoscenza dell’essere umano e dell’ambiente; nuove tecnologie per giungere là dove all’uomo non è dato arrivare, per superare le barriere e avere una vita migliore. Tuttavia, non potevo ignorare l’impatto sociale negativo che alcune di queste invenzioni hanno avuto a causa del loro impiego illegale o disonesto, o moralmente riprovevole.

Non potevo voltarmi dall’altra parte di fronte alle promesse non mantenute dalla tecnologia. Proprio il disincanto, l’impatto con i lati oscuri del progresso tecnologico – che non sempre si traduceva in progresso umano –, mi ha fatto capire la necessità di rivolgere la mia attenzione verso questo lato B. Ha stimolato il bisogno di comprendere meglio le implicazioni e le difficoltà, di dare risalto a ciò che accadeva intorno a me. E insieme quello di analizzare e di provare a trovare risposte per invertire il corso delle cose.


Esther Paniagua è autrice del libro Error 404. Siete pronti per un mondo senza internet?, pubblicato da Einaudi.

 

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