Il nuovo numero di Scenari, il settimanale geopolitico di Domani, è dedicato alla guerra invisibile dei chip. La catena di produzione dei semiconduttori – o microchip – rappresenta infatti la nuova linea di frattura del potere globale conteso tra Cina e Stati Uniti. In venti pagine, gli approfondimenti inediti firmati da Frederik Kelter, Cesare Alemanni, Raimondo Fabbri – e le mappe a cura di Daniele Dapiaggi e Bernardo Mannucci di Fase2studio Appears – analizzano gli aspetti strategici e i processi di una catena del valore enormemente complessa e globalizzata, sempre più importante anche per il settore della difesa.

Cosa c’è nel nuovo numero

Luca Sebastiani spiega cosa intendiamo quando parliamo di microchip: «Rappresentano per certi versi lo scheletro della nostra quotidianità: li usiamo ogni giorno, dallo smartphone alla televisione, dalle automobili ai frigoriferi, passando per qualsiasi strumento elettronico ci capiti a portata di mano. Senza contare che sono imprescindibili per interi settori, come la difesa, la sanità e i trasporti». All’interno del suo articolo Sebastiani offre anche una panoramica sulle (poche) grandi industrie che guidano il mercato globale dei semiconduttori. Taiwan, con il suo gigante Tsmc (Taiwan semiconductor manufacturing company) fondato da Morris Chang, domina per distacco la classifica, occupando un impressionante 54 per cento del mercato globale nella produzione di microchip e fornendo il 92 per cento dei chip più avanzati utilizzati nell’elettronica moderna; seguono Stati Uniti, primi nelle fasi di ricerca e commercializzazione, Corea del Sud, Cina e Giappone.

L’Unione europea per ora arranca più o meno in tutte le fasi della catena di produzione, ma lo European Chips Act proposto a febbraio prevede lo stanziamento di circa 43 miliardi di euro nel settore per cercare di colmare il divario.

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L’analista Alessandro Aresu, autore de Il dominio del XXI secolo, chiarisce il complesso percorso che porta al prodotto finito del chip. Il processo è costituito da varie fasi e passa da una filiera globalizzata di costruttori di macchinari ipersofisticati. Una di queste aziende costruttrici si trova in Olanda, ed è riuscita a diventare un colosso grazie a una combinazione di genio imprenditoriale privato e ricerca scientifica, senza ricevere fondi statali.

«Dobbiamo quindi evitare», sostiene Aresu, «di pensare che sia tutto solo nelle mani delle aziende che gestiscono le grandi fabbriche, come Tsmc, perché anche elementi poco visibili ricoprono nella filiera complessiva una grande importanza, e racchiudono storie aziendali sorprendenti».

Da Taiwan il giornalista Frederik Kelter torna sulla competizione fra Cina e Stati Uniti: la rivalità tra Pechino e Washington nella sfera tecnologica e dei microchip avanzati si è infatti recentemente intensificata a seguito dell’approvazione in agosto, da parte dell’amministrazione Biden, del Chips and Science Act, e di ulteriori manovre all’inizio di ottobre. Secondo Kelter, «lo scopo di queste misure è garantire agli Stati Uniti un accesso stabile ai semiconduttori avanzati nel futuro, e negarlo ai cinesi, limitando le esportazioni verso la Cina di strumentazione e progetti necessari per sviluppare e produrre i microchip avanzati».

Lo sviluppo del gigante asiatico in questo settore subirà quindi i contraccolpi delle restrizioni sulle esportazioni varate da Biden, ma rischia di incentivare una mossa cinese su Taiwan, che potrebbe perdere il ruolo essenziale attualmente ricoperto nella filiera americana e ritrovarsi sempre più esposta ai crescenti desideri di Pechino. 

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Matteo Piasentini e Alessandro Vesprini proseguono sul tema evidenziando come le limitazioni di Biden alle esportazioni di chip verso la Cina sottendano motivazioni non solo di natura economica ma anche di ordine strategico: obiettivo primario del Chips Act è infatti rallentare la crescita tecnologica di Pechino anche, e soprattutto, in ambito militare.

In particolare, sostengono gli autori, «qualora la Cina riuscisse a colmare il gap di sviluppo di tali microchip, potrebbe nel giro di pochi anni sviluppare supercomputer e intelligenze artificiali in grado di aumentare in modo consistente le capacità tattiche del suo esercito. Per dare conto della portata di tali innovazioni, esse aumenterebbero le probabilità di successo cinese in un eventuale sbarco anfibio nell’isola di Taiwan».

Cesare Alemanni avverte però sulle difficoltà nel realizzare il “reshoring”, ossia il rientro a casa delle aziende che avevano in precedenza delocalizzato: il Chips Act ha sì iniettato denaro ed entusiasmo, ma la strada per riportare l’eccellenza tecnologica negli Stati Uniti ha molti ostacoli. Il primo, semplicemente, è che non tutte le produzioni si possono rilocalizzate.

Non è solo una questione di ricerca e sviluppo, scrive Alemanni, ma anche di qualità e quantità del capitale umano: disegnare, produrre chip, e innovarli, è un processo che richiede competenze altamente specializzate, che al momento si trovano soprattutto in Asia, e che quindi America ed Europa hanno necessità di produrre. Secondo lo stesso Morris Chang, il raggiungimento dell’obiettivo si rivelerà per gli Stati Uniti non solo «molto più costoso e lento del previsto» ma anche con prospettive decisamente incerte.

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Il ricercatore Raimondo Fabbri sposta lo sguardo verso l’Europa e l’Italia, precisando come gli Stati Uniti vogliano con le loro misure promuovere un coordinamento transatlantico, che includa l’Unione europea nelle catene di approvvigionamento di semiconduttori e minerali critici. 

In questo contesto, secondo Fabbri, anche l’Italia potrà ritagliarsi un ruolo importante: da una parte, la società italo-francese STMicroelectronics investirà circa 730 milioni di euro (di cui 292 presi dal Pnrr) per allargare il proprio stabilimento italiano di Catania; dall’altra Intel, il più grande produttore di chip statunitense, ha annunciato la propria intenzione di destinare futuri investimenti in Italia, Irlanda e Germania.

Il numero di Scenari prosegue con altri tre contributi a sfondo tecnologico, a firma di Federico Guerrini, Esther Paniagua ed Elena Esposito.

Guerrini individua nello spazio la prossima frontiera della difesa: l’idea di uno spazio pacifico, aperto a tutti e privo di armi di distruzione di massa è, secondo Guerrini, ormai obsoleta; sono oggi le aree orbitali e sub orbitali a ricoprire un ruolo sempre più strategico dal punto di vista economico e militare.

Paniagua, invece, tratta dell’apocalisse che arriverà con il crollo di Internet: secondo l’autrice, oggi l’idea del blackout della rete non è più solo una teoria, ma una certezza. Siamo però così dipendenti a livello individuale, sociale, economico e governativo dalle strutture digitali che il loro collasso darebbe origine a una catastrofe senza precedenti.

La sociologa Esposito si interroga inoltre sulla comunicazione artificiale e sui confini dell’algoritmo: le informazioni generate dagli algoritmi sembrano ormai competere con l’intelligenza degli esseri umani; ma non sono le macchine a pensare come noi. Siamo noi ad avere, in parte, imparato a dialogare con loro.

Infine, il numero si chiude con una replica a un pezzo pubblicato nel precedente numero dal politologo Strazzari, dal titolo: “La politica estera del Pd ignora le questioni di genere”. Alla critica di Strazzari, secondo cui il documento finale prodotto dal Comitato di esperti sulla politica estera del Partito democratico ignora la dimensione di genere, l’analista Nicoletta Pirozzi risponde che donne, giovani e movimenti sono in realtà parte integrante del nuovo multilateralismo inclusivo auspicato dal testo. Anzi, per Pirozzi, il rinnovamento del Pd deve partire proprio dalla politica estera.

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