Samira Sabzian, la sposa bambina che dieci anni fa aveva ucciso il marito violento, è stata impiccata in Iran. «È la 18esima donna messa a morte» quest’anno nel regime degli ayatollah, «su un totale di 800 impiccagioni», ha ricordato il portavoce, di Amnesty International Italia, Riccardo Noury. Esecuzioni fatte con un macabro scenario che utilizza le gru per rendere ancora più violenta l’impiccagione stessa. La repubblica islamica ha il più alto numero di esecuzioni pro capite al mondo.

«Le leggi iraniane consentono i matrimoni forzati e precoci, dall’età di 13 anni per le bambine. Ma non proteggono le donne dalla violenza domestica e poi le ammazzano quando si ribellano», ha denunciato sempre Amnesty International Italia.

Parole che descrivono bene la stagione della repressione in corso in Iran verso i dissidenti. Una repressione che si manifesta non più in modo casuale e di massa, ma mirato e teso a colpire i simboli della ribellione al regime teocratico della repubblica islamica, nata nel 1979 con il ritorno in patria dall’esilio in Francia dell’ayatollah Ruhollah Khomeini e la fuga a gennaio dello stesso anno dello scià, ormai malato, Reza Pahlavi, un modernizzatore che voleva imitare l’opera di Kemal Ataturk in Turchia e invece fallì il suo scopo.

Basti ricordare che nel 1936, lo scià aveva imposto, sulle orme proprio di Ataturk, il divieto alle donne di indossare l’hijab e altri veli islamici in pubblico.

Non solo, ai tempi dello scià le donne iraniane pilotavano aerei di linea e potevano vestire all’occidentale per le vie di Teheran. Ma proprio nel corso delle rivolte contro lo scià che voleva introdurre il concetto di laicità dello stato in Iran, le donne più conservatrici iraniane usarono proprio lo chador in piazza come metafora della ribellione. Come ha scritto il premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, nel suo romanzo Neve, il velo è un simbolo potentissimo e identitario.

«Samira è stata vittima della pratica dei matrimoni precoci e ho visto quanto ha sofferto in carcere per il fatto che le è stato negato la possibilità di incontrare i suoi figli», ha aggiunto sui social network Mozhgan Keshavarz, l’attivista iraniana che è stata sua compagna di cella e che ha trascorso quasi tre anni dietro le sbarre, per lo più nella famigerata prigione di Evin a Teheran. Purtroppo una campagna di una settimana non è stata sufficiente per salvarla.

Masha Amini

La vicenda di Sabzian si intreccia con quella di Masha Amini, picchiata a sangue perché indossava male il velo. Un pestaggio da parte della polizia morale che le è costato la vita all’età di soli 22 anni.

Masha Amini era originaria del Kurdistan iraniano (una minoranza etnica) e si trovava in vacanza con la famiglia a Teheran, quindi con nessuna velleità di sfida al regime teocratico. Da quell’uccisione è nata una protesta che per mesi ha infiammato il paese spinta dai giovani che non tollerano più quelle imposizioni ritenute delle gabbie ideologiche alle loro vite.

Ma se non ci fosse stata la determinazione di Niloofar Hamedi e Elahe Mohammadi, le reporter che per prime hanno raccontato al mondo la storia della 22enne, non ci sarebbero state nemmeno le proteste che hanno fatto vacillare il regime. Ovviamente le due giornaliste sono state arrestate con accuse che come di consueto in Iran possono portare anche a una condanna a morte.

La sedia vuota a Oslo

Ma c’è un’altra donna iraniana simbolo della lotta contro il regime. Nel corso della cerimonia per l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2023, assegnato il 10 dicembre a Oslo all’attivista iraniana Narges Mohammadi, mancava proprio lei, perché imprigionata nel suo paese. Mohammadi è stata rappresentata dai figli che vivono in esilio in Francia.

Si tratta di donne diverse per estrazione sociale e grado di istruzione, accomunate dal desiderio di libertà. «Samira era tra i membri più vulnerabili di una società senza voce», ha scritto su X il cofondatore e portavoce dell’ong Iran Human Rights, Mahmood Amiry-Moghaddam.

Alla repressione che colpisce chiunque sfidi il regime della guida suprema Alì Khamenei si contrappone una rete di donne diverse che non si conoscono fra loro ma sono unite dal medesimo desiderio di riscatto. Ed è questa la novità di questa stagione della repressione in Iran. La rete delle donne si sta facendo sempre più estesa e sempre più forte, con tre parole d’ordine comuni a tutte: donna, vita, libertà.

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