Nella sua casa piena di piante nell’est di Londra, dove vive ormai da oltre trent’anni, la cinquantatreenne anglo-israeliana Sharone Lifschitz ha da poco ricevuto una notifica importante da parte di un funzionario israeliano. Suo padre, Oded Lifshitz, 84 anni, rapito dal villaggio frontaliero di Nir Oz il 7 ottobre 2023, è nella lista dei 33 ostaggi la cui liberazione è prevista nella fase uno dell’accordo fra Israele e Hamas.

Non è una sorpresa: da anziano è normale appartenga con donne e bambini alla categoria dei casi “umanitari”, cioè alla lista finalmente diffusa venerdì dal governo confermando i nominativi anticipati dai media. Ma rimangono diverse incognite.

Paura e speranza

Per prima cosa, uscirà vivo o morto? Gli ufficiali israeliani e inglesi che aggiornano Sharone sugli sviluppi, spesso in ritardo sulle notizie dei media, non hanno saputo fornire alcun dettaglio sulle sue condizioni. «Stiamo trattenendo il respiro», dice Sharone, seduta con alle spalle una finestra e di fianco una piccola statua orientale.

Filmmaker e accademica affermata, dall’inizio della guerra non è più riuscita a lavorare. E poi, sarà fra i primi tre a uscire domenica, oppure toccherà a lui solo a un certo punto, nelle 6 settimane successive, i 42 giorni della fase uno? «Ho la valigia pronta per partire in qualsiasi momento per Tel Aviv», dice, anche se per ora vuole stare vicino alla famiglia londinese.

Sharone sa bene che una persona anziana come suo padre difficilmente può sopravvivere oltre 470 giorni con la guerra a Gaza. Ma lo stesso si pensava della madre, Yocheved Lifshitz, anch’essa rapita ma poi rilasciata e rientrata in buona salute poche settimane dopo. «Finché non sono nelle nostre ambulanze, finché non li vediamo, non possiamo sapere», dice Sharone.

Durante un recente intervento pubblico sugli ostaggi a Londra, Sharone aveva detto: «Israele nell'ultimo anno ha reso impossibile alle persone che tengono gli ostaggi di fare le scelte giuste. Ma spero ci sia una persona magica che si è presa cura di mio padre. La gente in Israele può dire che dall’altra parte ci sono solo bestie, che hanno perso qualsiasi umanità. Eppure, in realtà, proprio dalla loro umanità dipende la sopravvivenza dei nostri cari».

Oggi però, a fronte del tanto sospirato accordo, più che speranza e soddisfazione sul viso di Sharone si leggono tristezza, sfinimento e preoccupazione. «Spero che chi ha ritardato l’accordo lo sappia, e che pesi per sempre sulle loro coscienze», dice di Netanyahu e della leadership israeliana. «Ora è nostro compito fare tutto il possibile per assicurarci che non collassi. Ci sono tante forze che vogliono vederlo deragliare, tante cose possono ancora andare storte, i fanatici possono prevalere», spiega.

L’ultradestra dei ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich ha a lungo osteggiato l’accordo paragonandolo a una resa. Perché comporta un cessate il fuoco e la liberazione di tanti prigionieri palestinesi. Netanyahu, prima che si facesse sentire la pressione di Trump, temeva che alienarsi gli alleati mettesse in pericolo il governo. «Il prezzo non è cambiato, per avere tutti gli ostaggi serve concedere un cessate il fuoco e ritirarsi da Gaza», dice Sharone. «I termini sono quelli di maggio, e da allora sono morte molte persone».

A rendere più fragile l’accordo, il cui testo non è stato ancora pubblico, è il fatto che si articola in diverse fasi dilazionate nel tempo e che su certi aspetti si mantenga vago.

«Tornerò a casa mia»

Parlando di Trump, a Sharone torna in mente una cosa che diceva suo padre, giornalista in pensione che ha sempre fatto parte di movimenti di sinistra sensibili alla questione palestinese. «Diceva che per la destra è sempre più facile intraprendere iniziative di pace, perché godono del sostegno dell’opposizione», ricorda. «Spero che Trump tenga duro sull’accordo e che poi proponga la soluzione a due stati».

Quale che sia la sorte di suo padre, Sharone sa per certo che in occasione del prossimo viaggio in Israele vuole tornare a Nir Oz. In pochi abitano oggi nel kibbutz. Dei 400 abitanti, 57 sono stati uccisi e 76 rapiti il 7 ottobre. Oggi quasi tutti sono sfollati. «Vado spesso a Nir Oz, mi manca, ci sono cresciuta», dice Sharone. «È stata casa, e lo sarà di nuovo».

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