Parla Hussam Abu Safiya, direttore del Kamal Adwan di Beit Lahia, l’unica struttura sanitaria rimasta in attività nel nord della Striscia. «L’esercito ha costretto i malati più fragili a uscire da qui sotto la minaccia delle armi, mentre dava alle fiamme i laboratori di analisi»
«L’Idf sta trasferendo forzatamente i pazienti in una località a noi sconosciuta. Sono persone ferite, deboli, con malattie in corso che sono costrette a camminare a lungo per andare in un luogo che sicuramente non è attrezzato. I soldati li hanno costretti col mitra puntato in faccia, mentre altri davano alle fiamme i laboratori di analisi». Sono le parole del dottor Hussam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, l’unico che era rimasto in attività nella zona settentrionale di Gaza.
Lo abbiamo raggiunto al telefono, perché il dottore è ancora nella struttura e rifiuta di lasciarla, nonostante l’Idf minacci di radere al suolo l’ospedale anche con lui dentro. Israele ha sganciato una bomba a pochi metri dall’ingresso della struttura nella notte tra giovedì e venerdì e ha distrutto un’intera ala dell’ospedale.
I morti accertati erano stati 50, tra cui anche un pediatra, un tecnico di laboratorio, due autisti delle ambulanze e un inserviente. Ma il bilancio delle vittime salirà, perché ci sono ancora tante persone sotto le macerie. «Io non lascio l’ospedale, non permetterò che lo radano al suolo», insiste il dottor Hussam.
Pazienti evacuati a forza
Nella mattinata di venerdì, mentre il resto delle mura rimaste in piedi bruciava, l’Idf ha occupato l’ospedale per svuotarlo completamente. Perciò, ha intimato a tutti i pazienti in grado di camminare di mettersi in fila indiana e seguire i soldati, a meno di non essere fucilati sul posto.
E così, con le flebo in mano, i cateteri e i drenaggi penzoloni sui fianchi, a gruppi gli uomini sono stati trasferiti. Alcuni sono stati spostati nel cortile della scuola Fakhoura, che si trova a pochi metri, ma lo spazio non è sufficiente per tutti, anche perché nella scuola c’erano già accampati i residenti della zona dell’ospedale, scappati dopo lo scoppio delle prime bombe, alle 4,30 del mattino. L’operazione di sgombero dell’ospedale è durata fino al tardo pomeriggio di venerdì, mentre il dottor Hussam è rimasto ancora dentro.
«Minacciano di arrestarlo appena esce e, se non esce, dicono che bombarderanno la struttura anche se all’interno ci sono ancora lui e qualche altro medico», racconta il giornalista Hassan Isdodi. Mentre le trattative proseguono, alcuni dei pazienti hanno avuto un malore durante il trasferimento.
«Mentre era in cammino, a un uomo si è riaperta la ferita che era stata suturata e ha avuto una emorragia», spiega il giornalista Isdodi, presente al momento del collasso. «Abbiamo provato a chiedere dove li porteranno, ma nessuno dell’Idf ha voluto risponderci», dice ancora.
Gaza senza più ospedali
Intanto, però, nella zona nord di Gaza strutture sanitarie non ce ne sono più. L’ospedale Kamal Adwan, infatti, era l’unico ancora in piedi dopo che l’ospedale Beit Hanoun è stato distrutto e l’ospedale indonesiano è stato completamente devastato e spogliato di tutte le attrezzature mediche.
«Israele vuole privarci anche della possibilità di curarci e di guarire. Questo è mostruoso», dice ancora il direttore sanitario Abu Safya in un messaggio vocale dall’interno dell’ospedale. La struttura sta bruciando da venerdì e rischia di consumarsi da sola, prima ancora che Israele sganci sopra un ordigno.
Ormai, nella Striscia, da nord a sud, è quasi impossibile ricevere assistenza medica di un certo tipo e in 450 giorni di guerra Israele ha distrutto 34 ospedali. Le sale operatorie sono state demolite, mancano anche le garze sterili e i bisturi. Morire di setticemia, poi, è facilissimo. «Molta gente si sta curando in casa: è preferibile provare a salvarsi così, piuttosto che andare in un ospedale, che ormai è mira specifica dei bombardamenti israeliani», spiega ancora Hassan Isdodi.
«Abbiamo perso fiducia nella comunità internazionale», dice Ismail El Thawabta, direttore dei media governativi di Gaza. «Ci hanno parlato del diritto internazionale ma non hanno fatto nulla di fronte ai crimini contro l’umanità. Quello che sta accadendo a Gaza sta accadendo sotto gli occhi di tutti. Stiamo vivendo una fase pericolosa e delicata, rischiamo davvero di morire tutti, uno per volta, finché non rimarrà nessuno».
A complicare le cose si mette anche il meteo, con pioggia e freddo pungente. Dopo che la piccola Sila è morta di freddo in una tenda lacera di Khan Yunis proprio la notte di Natale, un altro bimbo è deceduto per ipotermia. Sono già quattro i piccoli uccisi dal gelo. Non ci sono vestiti abbastanza caldi, le coperte sono state disintegrate dai bombardamenti e tutto quel che poteva essere usato per accendere il fuoco è stato usato.
Non ci sono altre difese contro il gelo se non i corpi che si stringono, un po’ per scaldarsi, un po’ per farsi coraggio. La situazione è ancora più drammatica negli accampamenti sulla spiaggia nella zona di Al Mawasi, dove il vento e il freddo della sabbia acuiscono la percezione del freddo. Quando mancano tre giorni alla fine dell’anno e il 2025 inizia all’insegna della guerra, altri bambini potrebbero morire per il freddo.
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