«Ora c’è speranza». Fra i rapiti di cui è previsto il rilascio ce ne sono due, di estrazione etiope e beduina, che sono a Gaza da 10 anni. Da soli non si erano meritati gli sforzi governativi per uno scambio. Intanto Hamas rende noto le identità di chi sarà liberato in questi giorni
Sha’aban al Sayed è un israeliano di etnia beduina. Abita a Hura, nel sud di Israele, fa l’autista di trattore e ha 65 anni. Da dieci vive nell’angoscia della scomparsa del figlio Hisham. Nell’aprile 2015, senza un motivo apparente, Hisham entrò a piedi a Gaza, un territorio proibitissimo per i civili israeliani. Poco dopo Hamas lo dichiarò prigioniero. «Non gli ho più parlato da allora», racconta al telefono Sha’aban durante una pausa sul posto di lavoro. «Solo per il fatto che mio figlio tentò di entrare a far parte dell’esercito israeliano, da cui peraltro fu rifiutato, Hamas insisteva che fosse un soldato».
Gli anni passavano. «Le ho provate tutte per ottenere la sua liberazione. Qualche anno fa andai persino da Papa Francesco», racconta. Poi, qualche settimana fa, la sorpresa. «Quando è uscita la lista dei 33 ostaggi che Hamas dovrebbe liberare [nell’ambito della prima fase del cessate il fuoco di Gaza] ho visto che c’era anche il suo nome. Ora ho speranza».
L’assenza di certezze
Dall’inizio dell’attuazione del nuovo accordo lo scorso 19 gennaio gli islamisti hanno liberato sette israeliani. Giovedì 30 è atteso il rilascio dei civili Arbel Yehoud e Gadi Moses, oltre che della soldatessa Agam Berger, mentre continua l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi verso il nord “riaperto” della striscia di Gaza. Lunedì Hamas ha fatto sapere al governo che 8 ostaggi su 33 non sono più in vita, ma non si sa con certezza quali.
Gil Elaias invece risponde al telefono mentre è in macchina che guida in direzione di Ashkelon, l’ultima cittadina israeliana sulla costa meridionale prima di Gaza. È cugino di secondo grado di Avera Mengistu, un israeliano immigrato ancora bambino dall’Etiopia che nel settembre 2014, a 28 anni, sconfinò nella Striscia attraverso la spiaggia, superando la barriera sulla battigia. Da quel momento anche lui è nelle mani di Hamas.
Nel decennio trascorso da allora né Hisham al-Sayed né Abera Mengistu si sono meritati sforzi governativi importanti per riportarli a casa. La società civile israeliana non si è mai commossa e mobilitata in modo capillare e martellante come era avvenuto per il soldato Gilad Shalit, rapito nel 2006 e scambiato nel 2011 per 1.027 prigionieri palestinesi. O a maggior ragione dopo il 7 ottobre 2023, con il rapimento di oltre 250 israeliani. Della loro prigionia sono emerse solo rarissime immagini.
«Avrebbero dovuto liberarlo ben prima della guerra», dice Elaias. «Mi chiedi se il governo israeliano avrebbero potuto farlo? Certo che sì. Se hanno fatto tutti i tentativi possibili? Certo che no», dialoga con sé stesso, rancoroso. «Questo è il punto».
Domande spiacevoli
Sulla vicenda di Hisham al-Sayed e Abera Mengistu aleggia da sempre un interrogativo sgradevole: quanto ha influito il fatto che entrambi appartengano a minoranze socialmente svantaggiate della società israeliana? Sarebbero scivolati così in basso nell’agenda governativa se fossero appartenuti a famiglie di estrazioni diverse, o meglio inserite? O forse su di loro ha solo pesato il fatto che a Gaza fossero entrati da soli? Elaias ha un altro sassolino nella scarpa. «Dopo la scomparsa di Avera per nove mesi le autorità ci imposero il silenzio stampa. Temevano che se fosse nata una campagna popolare come quella di Shalit, il suo prezzo in un potenziale scambio con Hamas sarebbe salito», racconta dal sud di Israele. «La notizia uscì solo quando fu riportata da un giornalista straniero, che non era soggetto all’embargo israeliano. Ma era troppo tardi per intervenire subito: il risultato è che dieci anni dopo non è tornato a casa». Per ironia della sorte i loro destini sembrano ancora intersecarsi con quello di Shalit. Nel verbale dell’accordo del gabinetto israeliano, risalente al 17 gennaio, si legge che i due verranno scambiati per 30 prigionieri palestinesi ciascuno «più 47 prigionieri di sicurezza rilasciati nell'ambito dell'accordo Shalit [e poi riarrestati]».
«Il 7 ottobre è stato una svolta», dice sempre Elaias quanto agli sforzi per la liberazione del parente prigioniero. Le due famiglie sono diventate parte integrante del movimento per la restituzione degli ostaggi e le loro storie dimenticate sono tornate sotto i riflettori. Hisham e Avera sono stati riconosciuti come vittime del terrorismo da Bituah Leumì, l’Istituto nazionale di previdenza. E la trattativa per cui si erano mobilitate per anni senza ottenere alcun risultato è finita al centro dell’agenda mediorientale. In tanti si sono scusati con le famiglie. «Per sette anni non abbiamo fatto cerimonie, abbiamo mangiato e bevuto come se Avera non esistesse», ha detto a luglio durante una manifestazione a Tel Aviv Yizhar Lifshitz, figlio di due rapiti israeliani, dopo aver incontrato i suoi parenti di persona. «Chiedo personalmente il loro perdono».
L’inferno. Ovvero Gaza
Sia di Hisham che di Avera i media locali hanno scritto che soffrissero di qualche disturbo mentale. Come spiegare altrimenti lo sconfinamento a Gaza? Dopo il golpe di Hamas la Striscia era diventata un aldilà mitologico nell’immaginario pubblico israeliano. Si diceva «vattene a Gaza» per dire «vai all’inferno». Negli anni alle due famiglie è servito a poco unire le forze con i parenti dei soldati Oron Shaul e Hadar Goldin, caduti nella Striscia durante l’operazione del 2014. I genitori hanno fatto anni di campagna per riavere i loro corpi, invano (quello di Oron Shaul è stato recuperato qualche giorno fa in un’operazione speciale). Sha’aban ha anche tentato invano la carta “tribale”. «Noi beduini ci teniamo in contatto coi rami familiari e tribali che si trovano in zone diverse di questa regione», racconta. «Siamo presenti qui nel Neghev, ma anche nel Sinai egiziano, in Giordania, Arabia Saudita. E molte famiglie hanno parenti anche a Gaza». Sono i paradossi dei confini politici che spesso, in Medio Oriente, impongono distanze innaturali alla gente locale. «Ma non servì a nulla contattare Gaza tramite canali personali», conclude il padre.
Anche ora che c’è un accordo onnicomprensivo alle due famiglie toccherà pazientare fino alle ultime settimane della fase uno. Sembra che, anche questa volta, Hisham e Abera siano gli ultimi della fila.
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